Sulle orme di Giano: Innovare è Rigenerare


Nel cuore di Roma, tra le pietre millenarie del Foro Romano, un’assenza racconta una storia che continua a sfuggirci. Qui, in quello che un tempo era il fulcro della vita politica e religiosa dell’Urbe, sorgeva il Tempio di Giano, dedicato al dio bifronte, custode dei passaggi e delle soglie e padre di tutti gli dei. Di quel tempio oggi rimangono solo poche tracce.

Eppure l’immaginazione ci spinge a ricostruirne la presenza, a riempire il vuoto lasciato dal tempo con le storie che Giano ancora ispira.

 Nell’antica Roma, Giano era il custode di ogni soglia: non solo fisica, come porte e ponti, ma anche simbolica, come quelle tra guerra e pace, passato e futuro. Le sue porte sacre si aprivano in tempo di guerra e si chiudevano in tempo di pace, rappresentando la dualità e la continuità che permeano ogni trasformazione. Era il dio del primo mese dell’anno, gennaio, che porta il suo nome e segna il passaggio tra il vecchio e il nuovo.

Ma Giano, con il suo sguardo duplice, non separava mai completamente il passato dal futuro: la sua visione era ciclica, un eterno fluire dove ogni innovazione trovava le sue radici in ciò che era già stato.

Sorprendentemente, non esiste un busto di Giano bifronte esposto in un museo romano con un’attribuzione certa e riconosciuta da tutta la comunità scientifica. Le sue raffigurazioni scultoree, sebbene rare e frammentarie, si disperdono nel tempo come i pezzi di un enigma. La figura di Giano, così simbolica e fondamentale nella mitologia romana, sembra sfuggire alla concretezza della pietra, rimanendo un’idea più che un’immagine definita.

Le ragioni di questa assenza sono molteplici. Innanzitutto, le rappresentazioni di Giano sono varie e mutevoli: il dio dei passaggi ha attraversato i secoli in forme diverse, senza mai cristallizzarsi in un unico modello iconografico. Inoltre, molte sculture antiche sono giunte fino a noi in frammenti e i restauri hanno spesso alterato la loro fisionomia originale, rendendo difficile attribuirle con certezza a una specifica divinità. Persino nei contesti archeologici più significativi, come il Foro Romano, l’identità di Giano si dissolve, lasciandoci con poche certezze e molte suggestioni.

 E così, visitare il Foro diventa un’esperienza immaginativa: camminando tra le rovine, si può quasi sentire la presenza di Giano. Non c’è bisogno di un busto per cogliere la sua essenza: Giano vive nei luoghi di passaggio, nelle soglie che attraversiamo ogni giorno, nei momenti di cambiamento che definiscono la nostra esistenza.  La sua figura unisce simbolicamente le forze contrastanti dell’universo: da un lato l’acqua e la terra, pesanti e tendenti a scendere, dall’altro il fuoco e l’aria, leggere e tendenti a salire. È attraverso questa capacità di tenere insieme le tensioni opposte che Giano diventa il mediatore tra passato e futuro, il creatore di un dialogo continuo tra tradizione e innovazione.

Attraverso i secoli, il mito di Giano ha continuato a ispirare pensatori e creatori. Nel Rinascimento, gli artisti incarnarono questo spirito nel loro lavoro: Brunelleschi, nella progettazione della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, non rifiutò le conoscenze antiche, ma le reinterpretò in chiave moderna.

Oggi, nel linguaggio comune, il termine “Giano bifronte” è spesso usato in senso negativo per descrivere una persona percepita come disonesta o falsa, qualcuno che presenta due facce opposte: una visibile e rassicurante, l’altra nascosta e insincera. Questa interpretazione nasce da una semplificazione della figura mitica di Giano, che nella sua essenza non è affatto simbolo di falsità, ma di ambivalenza creativa e capacità di connessione tra opposti.

L’idea di associare Giano bifronte alla falsità riflette probabilmente la difficoltà, in ambito umano, di accettare la non univocità. Nel nostro immaginario culturale, siamo più inclini a considerare la coerenza lineare come un valore, mentre chi esprime visioni o comportamenti contrastanti viene facilmente etichettato come incoerente o, peggio, ingannevole.

Viviamo in un mondo dominato da una sola idea di innovazione lineare che celebra la rottura, la “disruption”, come unico vero progresso. In questa visione economicista, il valore dell’innovazione si misura in termini di velocità, profitto immediato e capacità di soppiantare il vecchio con il nuovo. È un modello lineare e aggressivo, che riduce il cambiamento a una competizione incessante e sacrifica la profondità del significato per la novità superficiale.

La Silicon Valley è l’emblema di questo approccio, dove ogni nuova tecnologia è presentata come una rivoluzione. E il passato diventa un ostacolo da superare. Ma in questa corsa, spesso si perde di vista il motivo stesso per cui innoviamo: non solo creare qualcosa di nuovo, ma migliorare la vita delle persone e arricchire il nostro mondo con idee che abbiano valore duraturo.

Nell’ultimo ventennio, le start-up sono state celebrate come il motore dell’innovazione, sono diventate il simbolo della rottura radicale con il passato, unica forza capace di generare nuovi mercati, nuovi modelli di business e nuove opportunità. Tuttavia, dietro questa narrazione idealizzata si cela una realtà più complessa, in cui velocità e innovazione raramente si traducono in valore duraturo.

Uno sguardo ai dati degli ultimi venti anni rivela una realtà inquietante. La maggior parte delle start-up fallisce entro pochi anni dalla fondazione. Secondo uno studio di CB Insights, il 70% delle start-up non supera il quinto anno di attività, e il 90% fallisce complessivamente. Nonostante gli investimenti massicci, le promesse di rivoluzione e i titoli entusiastici, solo una piccola frazione di queste imprese riesce a sopravvivere e prosperare nel lungo termine. Il modello dominante delle start-up sembra dunque essere intrinsecamente fragile.

Un esempio emblematico: WeWork.  Una start-up che, negli anni 2010, ha ridefinito il concetto di spazi di coworking. Valutata a un certo punto oltre 47 miliardi di dollari, WeWork è crollata nel 2019 a causa di una gestione finanziaria insostenibile e di una visione aziendale che puntava più all’espansione rapida che alla sostenibilità a lungo termine. Nonostante l’impatto iniziale e la promessa di innovazione, WeWork ha mostrato come un modello di crescita eccessivamente aggressivo possa minare la continuità.

Le start-up sono spesso costruite sulla premessa di rompere con il passato, distruggendo i modelli consolidati per introdurre qualcosa di completamente nuovo. Questo approccio, pur capace di generare soluzioni innovative, manca frequentemente di continuità. L’ossessione per la velocità e l’espansione non lascia spazio per riflettere sulle radici culturali, sociali e storiche che potrebbero offrire una base più solida per l’innovazione.

Un caso interessante è quello di Theranos, la start-up biotecnologica fondata da Elizabeth Holmes, che prometteva di rivoluzionare il settore della diagnostica medica. Basata su tecnologie non ancora consolidate, Theranos ha puntato tutto sull’impatto immediato, trascurando i principi fondamentali della scienza medica e della sicurezza del paziente. Il risultato è stato un disastro che ha compromesso non solo l’azienda, ma anche la fiducia del pubblico nell’innovazione biotecnologica.

 Le nuove idee devono rispondere a bisogni reali e creare valore duraturo. Tuttavia, molte start-up si concentrano sulla creazione di prodotti o servizi che non affrontano problemi significativi, ma cercano piuttosto di cavalcare mode passeggere. Questo approccio produce spesso innovazioni superficiali, incapaci di generare un impatto profondo o duraturo.

 Un esempio è rappresentato da molte app di consumo, progettate per attirare rapidamente utenti e investimenti senza offrire un valore reale. Juicero, una start-up che produceva una macchina per spremute “intelligente”, è diventata un simbolo di questa superficialità. Con un prezzo elevato e funzionalità discutibili, Juicero è crollata non appena gli utenti hanno scoperto che il prodotto non era essenziale né utile. Questa mancanza di significato ha portato al fallimento, evidenziando i limiti di un’innovazione fine a sé stessa.

La rigenerazione è il principio più trascurato nel modello delle start-up. L’approccio dominante si basa su un’idea di crescita lineare, in cui l’obiettivo è ottenere il massimo ritorno economico nel minor tempo possibile. Questo spesso porta a pratiche insostenibili, che sfruttano risorse senza preoccuparsi della loro rigenerazione o dell’impatto a lungo termine.

Uber, pur avendo rivoluzionato il settore dei trasporti, è stato criticato per aver creato un modello di business che si basa su pratiche discutibili, come il trattamento precario dei lavoratori e un impatto ambientale significativo. Sebbene Uber abbia introdotto innovazioni tecniche, il suo modello non è rigenerativo: non considera come reintegrare nel sistema economico e sociale il valore estratto, ma si limita a sfruttare le risorse esistenti.

 In sostanza noi trascuriamo una idea basilare: nel cuore della nostra cultura, nel mito e nella storia che ci hanno preceduto, si trovano le radici del nostro modo di pensare il cambiamento e l’innovazione. La figura di Giano, il dio bifronte capace di guardare al passato e al futuro, rappresenta non solo un simbolo della transizione, ma un avvertimento: innovare senza memoria, senza uno sguardo consapevole alla storia e ai miti che ci hanno formato, porta a un’innovazione priva di significato. È la mancanza di continuità e di profondità che caratterizza oggi il “mito” moderno delle start-up, a produrre uno pseudo progresso che spesso corre verso il futuro dimenticando di portare con sé il senso e la saggezza del passato.

Quando dimentichiamo i miti e le storie che ci hanno formato, l’innovazione si riduce a un esercizio tecnico, a un gioco sterile di creazione di novità senza radici. 

Artisti e pensatori come Italo Calvino ci ricordano che ogni creazione deve dialogare con ciò che l’ha preceduta. Nel suo saggio Lezioni americane, Calvino sottolinea l’importanza della leggerezza e della profondità, due qualità che si ottengono solo quando si conosce la storia e si è in grado di lavorare con essa, non contro di essa. L’innovazione che ignora il passato diventa allora pesante, priva di quella leggerezza che nasce dalla consapevolezza del contesto e della tradizione.

Ma soprattutto quando si diventa “a-storici”(essere astorici significa vivere e pensare come se il presente fosse l’unica dimensione esistente, senza considerare il contesto storico e l’evoluzione nel tempo dei fenomeni) ci tramutiamo in “clientes” del potere di pochi e delle loro fabbriche di miti falsi. Per intenderci: nel significato latino del termine, i clientes erano cittadini romani liberi, ma legati da un rapporto di dipendenza e protezione a un patrono. In cambio della protezione e dell’assistenza ricevute, il cliente era tenuto a mostrare lealtà e devozione al patronus, sostenendolo nelle sue imprese e votando per lui nelle elezioni.

Anche in ambito artistico, i grandi innovatori hanno sempre lavorato con il passato, non contro di esso. Pablo Picasso, ad esempio, non ha distrutto l’arte classica, ma l’ha rielaborata attraverso il Cubismo, trasformandola in qualcosa di nuovo e rilevante per il suo tempo. Questo è il tipo di innovazione che possiamo definire trasformativa: un processo che rigenera, che dà nuovo significato senza cancellare ciò che l’ha preceduto.

La lezione di Giano e l’alternativa della SEU

La critica alle start-up non implica che l’innovazione debba essere rifiutata. Al contrario, ci invita a ripensare i modelli attraverso cui innoviamo. La Strategia Economica Umana (SEU) offre un’alternativa che si allontana dalla velocità e dalla rottura per abbracciare la continuità, il significato e la rigenerazione.

La continuità è il riconoscimento che ogni innovazione nasce da radici profonde. Nulla esiste nel vuoto: ogni idea, ogni progresso, si basa su un’eredità culturale, storica e sociale. Come nelle antiche botteghe rinascimentali, dove maestri e apprendisti lavoravano insieme, le idee più potenti emergono dall’interazione di diverse prospettive e dalla valorizzazione del sapere condiviso.

Il significato è il cuore dell’innovazione januale. Non si tratta solo di “come” innoviamo, ma il “perché”. L’innovazione che conta è quella che risponde ai bisogni umani, che crea valore duraturo e che si connette alle aspirazioni più profonde delle persone. Ogni progresso significativo è radicato in una comprensione del contesto e delle storie che lo hanno preceduto.

La rigenerazione, infine, rappresenta il processo di trasformazione in cui il vecchio non viene eliminato, ma rinnovato. Come il ciclo naturale della vita, l’innovazione januale vede ogni passaggio come un’opportunità per creare qualcosa di nuovo senza distruggere ciò che già esiste. Questo approccio è evidente nel fenomeno dell’exaptation in biologia, dove strutture sviluppate per una funzione specifica vengono adattate a nuovi scopi. Allo stesso modo, l’innovazione januale trasforma ciò che è obsoleto in una nuova fonte di valore.

Alcune aziende, anche nel contesto delle start-up, hanno adottato approcci più trasformativi. Patagonia, ad esempio, ha costruito un modello di business basato sulla rigenerazione ambientale e sulla continuità culturale, dimostrando che è possibile innovare senza distruggere. Analogamente, Etsy ha creato una piattaforma che valorizza artigiani locali, combinando innovazione tecnologica con significato e sostenibilità culturale.

Come il dio che non volta mai completamente le spalle a nessuna delle due direzioni, l’innovazione januale, trasformativa proposta nella SEU  integra ciò che è stato con ciò che sarà, creando una trasformazione consapevole e significativa.

Essere un “Giano bifronte”, nella sua accezione autentica, non è una questione di inganno, ma di capacità di guardare la realtà da più prospettive. In contesti complessi, come la gestione aziendale, i passaggi generazionali o i momenti di crisi, questa capacità è fondamentale. Non si tratta di scegliere tra passato e futuro, tra stabilità e cambiamento, ma di saperli tenere insieme, cogliendo il valore di entrambi.

Forse il vero inganno non è essere bifronti, ma fingere che una sola prospettiva, un solo volto, sia sufficiente per affrontare le sfide della vita.

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