Mi chiamo Vincenzo Florio.
La mia storia è intrecciata a doppio filo con quella di una terra straordinaria: la Sicilia, con i suoi profumi, le sue contraddizioni, il suo sole che accarezza e brucia. E’ stata per secoli una terra di contatti, di scambi, di conflitti. Tra questi incontri, uno in particolare ha lasciato un segno profondo: quello tra gli inglesi e il nostro vino, il Marsala.
Gli inglesi non arrivarono qui per caso. Già molto prima che io nascessi, i loro mercanti solcavano i nostri mari, attraccavano nei nostri porti, e riempivano le loro stive di grano, vino e agrumi. La Sicilia, con la sua posizione strategica nel cuore del Mediterraneo, era come un faro per chiunque volesse dominare le rotte verso l’Oriente. Quegli scambi non erano solo economici, ma culturali. Conoscemmo il loro pragmatismo, la loro sete di commercio e loro impararono il valore di una terra che sapeva dare tanto, se solo la si ascoltava.
È il 1773 e John Woodhouse, un intraprendente commerciante di Liverpool, naviga nelle acque del Mediterraneo. Dicono che una violenta tempesta lo abbia sorpreso al largo delle coste siciliane, costringendolo a cercare riparo nel porto di Marsala. Mentre la sua nave è ormeggiata al sicuro, Woodhouse esplora la cittadina. In una modesta osteria del porto, assaggia un vino locale, chiamato “Perpetuum” per la sua caratteristica di essere conservato per lunghi periodi. Il sapore ricco e intenso di questo vino, con le sue note ossidative, lo colpisce profondamente. Woodhouse, conoscitore di vini liquorosi come il Madeira e lo Sherry, intuisce immediatamente il potenziale di quel nettare. Capisce che, con le giuste tecniche di vinificazione e l’aggiunta di alcol per stabilizzarlo durante i lunghi viaggi in mare, quel vino siciliano avrebbe potuto conquistare il mercato inglese, avido di nuove esperienze gustative. Partì con le sue botti, e quando arrivò in patria, il successo fu immediato. Gli inglesi amarono quel vino che sembrava portare con sé il calore del Mediterraneo.
Ma Woodhouse non fu l’unico a vedere il potenziale di Marsala. Qualche decennio dopo, durante l’epoca delle guerre napoleoniche, arrivò un altro inglese: Benjamin Ingham. Era il 1806 e la Sicilia era sotto la protezione della flotta britannica. Gli inglesi avevano trasformato l’isola in un protettorato strategico, e per Marsala ciò significava una finestra sul mondo. Ingham, più astuto e lungimirante di Woodhouse, comprese che non bastava esportare il vino: bisognava costruire un sistema. Creò cantine moderne, ottimizzò la produzione, e stabilì una rete commerciale che raggiungeva non solo l’Inghilterra, ma anche le Americhe e l’Asia. Sotto la guida di Ingham, Marsala non era più solo una città siciliana. Era diventata un nome conosciuto nei mercati di tutto il mondo.
Quando decisi di entrare in questo mondo, nel 1833, Marsala era già un punto di riferimento per il commercio internazionale. Le cantine di Woodhouse e Ingham dominavano il mercato, e il Marsala era diventato il vino delle grandi occasioni, amato dalle corti e dai mercanti. Ma io non ero un uomo che si accontentava di seguire le orme degli altri. Se dovevo fare qualcosa, doveva essere unico, grande, autentico. Così acquistai le cantine Woodhouse e iniziai a trasformarle. Non volevo solo competere con gli inglesi; volevo creare qualcosa che fosse profondamente siciliano, un vino che portasse con sé la nostra terra, la nostra luce, la nostra anima.
Non fu facile. Gli inglesi avevano il controllo del mercato, le navi, i contatti. Ma io avevo qualcosa che loro non avevano: la Sicilia. Per me, ogni bottiglia di Marsala non era solo un prodotto, ma un racconto. Volevo che chiunque lo assaggiasse potesse sentire il sole che aveva maturato l’uva, il vento che aveva accarezzato le colline, le mani che avevano lavorato con pazienza per trasformare il mosto in un nettare prezioso. Costruii nuove cantine, più grandi, più moderne, progettate per accogliere migliaia di botti. Ma non persi mai di vista il cuore del mio lavoro: il rispetto per la materia, per il tempo, per il sapere di chi lavora.
Mentre io lavoravo per far crescere il mio vino, il mondo cambiava. Nel 1860, la Sicilia fu testimone di un altro incontro storico: lo sbarco di Garibaldi. I Mille arrivarono proprio a Marsala, accolti da una flotta britannica che, pur mantenendosi ufficialmente neutrale, garantì il loro passaggio sicuro. La Gran Bretagna aveva interesse a vedere un’Italia unita e liberale, e Marsala, con le sue cantine e i suoi commerci, era uno degli epicentri di quel cambiamento. Fu un momento che diede alla Sicilia un nuovo posto nella storia, e il Marsala, il mio Marsala, ne fu parte.
Oggi, pensando a quegli anni, vedo come la storia del Marsala sia la storia di un incontro. L’incontro tra la Sicilia e l’Inghilterra, tra tradizione e innovazione, tra terra e mare. Woodhouse vide il potenziale. Ingham costruì il sistema. Io, Vincenzo Florio, cercai di dare al Marsala un’anima. E ancora oggi, quando una bottiglia viene aperta, mi piace pensare che racconti questa storia, che porti con sé la luce, il calore, il respiro della mia Sicilia.
Il sole della Sicilia non si accontenta di illuminare, ma brucia, scava, plasma.
Cresci sotto quel cielo sapendo che nulla ti sarà mai regalato, ma che tutto ciò che ottieni avrà il sapore pieno della conquista. Io, Vincenzo Florio, sono figlio di questa terra, un luogo che sa essere madre e matrigna, generosa e crudele. Quando ero giovane, la Sicilia era una terra piegata, inghiottita dai suoi stessi tesori. Le sue mani producevano vino, pesce, sale, ma raramente le ricchezze restavano qui. Venivano portate via, consumate da chi non sapeva nulla di questa luce, di questo mare.
Non potevo accettarlo. La mia vita, le mie imprese, tutto ciò che ho costruito, è stato un tentativo di dare voce a questa terra e di darle un futuro. Quando ho rilevato le cantine di Marsala, non era solo per vendere vino. Era per raccontare una storia. Perché ogni bottiglia che usciva dalle mie cantine portava con sé il sole che aveva maturato l’uva, la terra che l’aveva nutrita, le mani che l’avevano lavorata. Non era solo un prodotto, era un dialogo tra l’uomo e la materia, un intreccio di relazioni.
Lo stesso valeva per le mie tonnare. Pescare il tonno non era un atto di dominio, ma di rispetto. Il mare non lo puoi possedere, puoi solo ascoltarlo, capirlo, entrare in relazione con esso. Ogni pesce che portavamo a riva era il risultato di un patto, di un equilibrio delicato. Anche quando ho introdotto il confezionamento in scatola, l’ho fatto per proteggere quel racconto, per farlo viaggiare oltre le onde, senza tradirlo.
Ho sempre creduto che creare qualcosa non significhi imporre una forma su una materia passiva, ma entrare in dialogo con ciò che hai di fronte. Che sia il bronzo di una scultura, il legno di una nave o il vino in una botte, la materia ha qualcosa da dirti. È viva, resiste, risponde. Creare significa ascoltare, adattarsi, trovare un equilibrio tra ciò che vuoi fare e ciò che la materia ti permette di fare. Questo è il “fare” che ho sempre conosciuto: un intreccio, una danza, mai un comando.
Oggi, però, mi ritrovo in un mondo che non riconosco. Un mondo dove tutto sembra essere stato ridotto a merce, dove la velocità ha preso il posto della qualità e il dominio ha cancellato il dialogo. Mi hanno chiesto di viaggiare, di vedere cosa significhi creare nel XXI secolo.
E così adesso sono migliaia di miglia lontano dalla Sicilia, lontano dal Mediterraneo che mi ha cresciuto.
Il mio primo viaggio mi porta in un magazzino Amazon, negli Stati Uniti, un luogo che mi spiegano essere il cuore del commercio moderno. Attraverso oceani e pianure, atterro in un paese che mi appare gigantesco e disarticolato, una terra giovane ma già stanca. Entro in questo magazzino – lo chiamano “fulfillment center” – e subito sento un freddo che non viene dall’aria, ma dall’assenza di vita. Il silenzio è rotto solo dal ronzio delle macchine e dal calpestio rapido di scarpe. Le persone qui non parlano, non si guardano. Mi spiegano che ogni lavoratore ha un dispositivo che gli dice cosa fare, dove andare, cosa prendere. Guardo un ragazzo che corre tra gli scaffali. “Cosa stai facendo?” gli chiedo. Lui mi guarda perplesso, come se non capisse la domanda. Risponde: “Seguo le istruzioni.” Rimango in silenzio.
Il viaggio successivo mi porta ancora più lontano dalla mia Sicilia, in un mondo che non avrei mai immaginato. La destinazione è Guangzhou, una delle città più grandi e popolose della Cina, il cuore pulsante della produzione globale. Guangzhou, un tempo nota come Canton, ha una storia lunga e intricata, fatta di commerci, imperi e rivoluzioni. Fu un centro nevralgico per la Via della Seta marittima e uno dei principali porti del commercio mondiale nel XIX secolo, il punto d’incontro tra l’Oriente e l’Occidente. Oggi, però, la città che si estende davanti ai miei occhi non somiglia affatto a quel crocevia culturale che immaginavo.
Guangzhou è un intreccio di grattacieli che si specchiano nei fiumi grigi, opachi per l’inquinamento, un simbolo vivente di una modernità costruita in fretta e furia, piegando la tradizione a esigenze che sembrano non rispettare più nulla. Dove un tempo si ergevano templi e mercati vivaci, ora ci sono strade affollate di veicoli e complessi industriali che lavorano senza sosta. La città pulsa, ma il suo ritmo non è quello della vita; è quello della produzione, della macchina, della pressione. Mi sento come un pesce fuori dall’acqua, lontano dai cieli aperti della mia Sicilia, dove ogni angolo porta con sé una storia di mani e materiali intrecciati con cura.
Sono qui per visitare Shein, un nome che mi dicono essere sinonimo di moda veloce, un colosso globale che produce abiti per milioni di persone. Mi dicono che Guangzhou è il fulcro di tutto questo, una città dove la modernità ha divorato ogni lentezza, ogni riflessione, ogni relazione tra ciò che si crea e il mondo che lo accoglie.
Entro nella fabbrica, ed è come camminare dentro un gigantesco alveare. Le macchine ronzano senza sosta, il rumore è assordante, un caos di ferri e ingranaggi che sembra non avere mai fine. Tessuti scorrono su nastri trasportatori, mani umane e meccaniche si muovono in sincronia per tagliare, cucire, confezionare. Ogni capo prende forma in pochi secondi. Non c’è tempo per osservare, per ascoltare il tessuto, per capire il filo. È tutto veloce, frenetico, senza pause.
Chiedo di vedere uno degli abiti appena confezionati. Lo tengo tra le mani, ma è leggero, quasi privo di consistenza, infatti non porta con sé alcuna storia, alcuna memoria di chi lo ha creato o del luogo da cui proviene il tessuto. Mi spiegano che Shein produce milioni di capi ogni giorno, venduti online in tutto il mondo. “Vogliamo che chiunque possa comprare, spendendo poco e velocemente,” mi dicono con orgoglio. Mi fermo, guardo quegli abiti, quelle macchine, quelle mani, e sento un peso che non riesco a scrollarmi di dosso.
La città che un tempo era un punto di incontro tra culture, dove ogni merce trasportava con sé il sapore delle terre da cui veniva, è ora un enorme ingranaggio di produzione. Il suo respiro è soffocato dal ritmo delle macchine.
La mia ultima tappa è in Svizzera, a Vevey, dove ha sede Nestlé, la più grande azienda alimentare del mondo. La Svizzera è ordinata, precisa, ma mi appare fredda, lontana dalla passione caotica della mia Sicilia. Entro negli stabilimenti Nestlé e vedo macchine che trasformano il latte in polvere, che impacchettano barrette. E, con mio grande stupore, bottiglie d’acqua. Tutto è perfetto, tutto è impeccabile. Ma dove sono le persone? Dove sono le mani che un tempo mungevano le mucche, che lavoravano il latte? Mi spiegano che acquistano l’acqua in regioni povere, la imbottigliano e la vendono nei mercati ricchi. “E cosa lasciate a quelle terre?” domando. “Nulla. Non è necessario,” mi rispondono.
Rimango senza parole.
“Non è necessario?” sussurro. “L’acqua non è vostra. È di chi la beve, di chi la vive. Come potete prenderla senza restituire nulla? Come potete non capire che ogni goccia che imbottigliate toglie qualcosa a qualcuno?”
Nessuno risponde. Mi sento come se stessi parlando con le macchine.
Sono tornato in Sicilia da più di due settimane, ma i ricordi del viaggio che ho fatto mi pesano più del corpo di una balena. Guardo il mio mare, sento il suo respiro, e penso a ciò che ho visto. Un mondo fatto di efficienza senza vita, di velocità senza anima. Un mondo che ha dimenticato cosa significa creare, cosa significa ascoltare. Quando penso alle mie cantine, alle mie tonnare, vedo un tempo in cui ogni cosa aveva un senso, in cui ogni gesto era parte di qualcosa di più grande. Questo mondo non ascolta. Questo mondo non guarda. Forse è troppo tardi. Ma finché il mare si muove e il vento soffia, voglio credere che non tutto sia perduto. Voglio credere che qualcuno, da qualche parte, ricorderà.
Ma io, oltre la speranza, ho anche domande che bruciano, domande che mi tormentano.
Perché non ascoltate più la materia che lavorate? Perché trattate il vino, il tessuto, il cibo come oggetti inerti e non come qualcosa che vive e risponde? Dov’è il rispetto per il tempo? Il tempo che ci vuole per capire, per maturare, per creare? Come potete credere che la velocità sia un valore in sé, se tutto ciò che produce è oblio?
E poi, chi sono le persone che lavorano per voi? Avete mai parlato con loro? Avete mai guardato le loro mani, i loro occhi? Sapete cosa pensano, cosa sentono? Oppure per voi sono solo numeri, ingranaggi, strumenti? E le terre che sfruttate? Avete mai camminato in un campo di cotone, in una vigna, in una tonnara? Avete mai sentito il calore del sole sulla pelle, il profumo della terra bagnata, il respiro del mare?
E il vostro prodotto? Che storia racconta? Chi lo ha creato, con quali mani, con quali sogni? O per voi non importa? Basta che sia economico, che sia veloce, che sia venduto? Come potete vivere in un mondo dove nulla è fatto per durare, dove tutto è progettato per essere consumato e dimenticato? Non vi pesa il vuoto che lasciate dietro di voi?
Infine, mi chiedo: dove sono le relazioni? Dove sono le connessioni tra le persone, tra i materiali, tra il prodotto e il mondo che lo circonda? Come potete credere che la produzione sia solo una questione tecnica, senza mai chiedervi cosa significhi per chi crea, per chi usa, per chi guarda?
Non ho risposte. Ho solo queste domande, che bruciano dentro, come sa fare solo il sole di Sicilia. Ma se c’è una cosa che so, è questa: creare non è mai solo produrre. È entrare in relazione, è lasciare un segno, è dare significato a qualcosa che possa durare, che possa parlare, che possa vivere. E se il mondo di oggi non riesce a capirlo, allora mi chiedo: quale futuro possiamo avere?
Ma a questa ultima domanda retorica ho invece una risposta: avremo il futuro che abbiamo il coraggio di immaginare oggi.
Postilla
Nel contrasto con il mondo moderno, dominato dalla velocità e dall’alienazione, la filosofia del “fare artigiano” di Florio offre una risposta potente: creare è ascoltare, è immergersi nel flusso della vita, è trovare un equilibrio tra intenzione e contesto. Florio, ci ricorda che produrre non è mai solo tecnica, ma sempre anche relazione, narrazione e appartenenza. Raccontare Florio significa riaffermare un modello di “fare” che parla di connessioni, non di separazioni, di significati, non di meri oggetti.
