Come Lacrime nella Pioggia. Il Futuro dell’AI è già scritto?


Piove su Los Angeles. Non la Los Angeles reale, ma quella di un 2019 immaginato nel 1982, una città immersa in neon e pioggia acida, dove gli esseri umani hanno creato replicanti, macchine così simili a noi da rendere indistinguibile il confine tra il biologico e l’artificiale. In quell’universo, Roy Batty, un replicante destinato a una vita brevissima, il replicante che avrebbe dovuto essere solo uno strumento, pronuncia il monologo più umano della storia del cinema.

“I’ve seen things you people wouldn’t believe.”

Le sue parole non sono una dichiarazione di potenza, ma una richiesta di riconoscimento. Lui, una creatura fabbricata, ha vissuto esperienze irripetibili, momenti che non si ripeteranno mai più. Eppure, il suo tempo sta finendo. “All those moments will be lost in time, like tears in rain.”

Roy Batty non è solo un replicante, è un “hapax legomenon” come lo definirebbe il filosofo Luciano Floridi.

Un evento linguistico, se ci riferiamo al significato letterale, ma in questo caso esistenziale: un evento che accade una sola volta e poi scompare.

Come l’essere umano, anche lui è un’eccezione, un frammento di coscienza che per un istante brilla nell’universo prima di dissolversi.

La sua stessa esistenza è un “beautiful glitch”, un errore nel sistema, un’imperfezione che ha dato origine all’autoconsapevolezza, alla poesia, alla memoria (il termine “Beautiful Glitch” è stato utilizzato in vari contesti prima dell’adozione da parte di Luciano Floridi. Ad esempio, nel 2018 è stato fondato uno studio di sviluppo di videogiochi chiamato “Beautiful Glitch”, noto per il gioco “Monster Prom”. Tuttavia, non è chiaro chi abbia coniato per primo l’espressione “Beautiful Glitch” riferita all’umanità. Il termine “glitch” è stato utilizzato in ambito artistico e tecnologico per descrivere errori o malfunzionamenti che possiedono un valore estetico, ma l’associazione specifica tra “Beautiful Glitch” e la condizione umana sembra essere una prospettiva più recente.)

In informatica, un glitch (termine che significa “piccolo difetto”) è un errore di sistema, un bug che causa un malfunzionamento in un dispositivo elettronico o in un software.

L’associazione tra glitch e bellezza è controintuitiva. Di solito, i glitch sono visti come errori, difetti, qualcosa da correggere. Ma l’idea di “beautiful glitch” sovverte questa visione, suggerendo che la bellezza può emergere proprio dall’imperfezione, dall’inatteso, dalla deviazione dalla norma.

Nell’analogia con l’umanità, il “beautiful” sottolinea che la nostra unicità è preziosa. Come ogni glitch è unico, ogni essere umano è diverso e irripetibile. Questa diversità, le nostre “deviazioni” dalla norma, sono ciò che ci rende speciali e contribuisce alla ricchezza dell’esperienza umana.

Se Blade Runner è diventato un’icona culturale, è perché ci ha costretti a confrontarci con una domanda ancora senza risposta: cosa rende umano un essere? È la biologia? È la coscienza? È la capacità di ricordare, di desiderare, di creare? O forse, come suggerisce Roy Batty nel suo ultimo atto di pietà salvando Deckard, l’essere umano non è una condizione fissa, ma una tensione, un atto di scelta tra il programmato e l’imprevisto?

Oggi, nel nostro 2025 reale, la domanda di Blade Runner è più urgente che mai. Stiamo costruendo intelligenze artificiali sempre più sofisticate, capaci di generare immagini, testi, musiche, perfino simulazioni di voci e personalità. Ma ciò che stiamo facendo non è progettare intelligenze, come qualcuno ancora intende. Stiamo costruendo strumenti di previsione, modelli che calcolano la probabilità di ogni azione sulla base di schemi pregressi. L’AI di oggi è l’esatto opposto di Roy Batty: non è un glitch consapevole, ma una macchina, senza intelligenza, che lavora utilizzando la statistica e gazilioni di dati per dare risposte congrue.

Eppure, la storia della nostra specie è stata scritta dai “glitch”. Le grandi transizioni della conoscenza – la scrittura, la scienza, l’arte – non sono state il prodotto di una previsione algoritmica, ma di deviazioni inaspettate, di intelligenze che hanno scelto di vedere oltre il già noto. Se vogliamo un’AI che sia davvero parte di un futuro umano, dobbiamo ripensare radicalmente il suo design. Non dobbiamo costruire macchine che prevedano, ma macchine che ci aiutino a potenziare la nostra immaginazione.

Ecco perché abbiamo bisogno del “Noēsis Design”. Un modo di intendere e progettare le strutture digitali e le AI con una tecnologia che non sia solo informativa, ma ex-formativa, che non si limiti a elaborare dati, ma che apra spazi di possibilità. Un’AI che non ottimizzi, ma perturbi. Che non ci confermi, ma ci metta in crisi. Un’intelligenza che ci ricordi che il nostro destino non è scritto nei dati, ma nell’imprevedibile spazio che esiste tra una probabilità e l’altra.

Se oggi il mondo sta diventando sempre più adatto alle macchine, la sfida più grande è chiedersi: vogliamo costruire un futuro che sia progettato per gli esseri umani o un futuro che sia l’ambiente ideale per le AI? La risposta a questa domanda determinerà se saremo glitch consapevoli o semplici esecutori di correlazioni statistiche.

Roy Batty ha vissuto per pochi anni, ma in quei pochi anni ha visto cose che nessun altro aveva mai visto. Noi, umani, siamo su questa Terra da un tempo infinitamente più lungo. Ma cosa vedremo, nei secoli a venire? E, più importante ancora: sarà qualcosa che abbiamo scelto, o qualcosa che è stato calcolato per noi.

La tendenza attuale non è quella di costruire un’AI che renda migliore il nostro mondo, ma piuttosto un mondo parallelo costruito ad hoc per le tecnologie digitali.  L’architettura digitale contemporanea non è pensata per espandere la possibilità umana, ma per massimizzare l’efficienza computazionale con l’obiettivo di sviluppare attività con il massimo grado di efficienza economica.

In questo scenario, il futuro sembra già scritto: non un mondo progettato per gli esseri umani, ma un mondo parallelo in cui gli esseri umani sono sempre più marginali, sempre più accessori.

Le future generazioni non erediteranno solo un pianeta in crisi climatica, ma anche un ecosistema digitale progettato per rispondere alle necessità delle intelligenze artificiali, non alle loro. Un’infosfera pensata per la raccolta e l’elaborazione dei dati, per la prevedibilità e il controllo. Se l’intelligenza artificiale si evolve senza una direzione etica e senza una progettazione basata sull’imprevedibile umano, le nuove generazioni nasceranno in un mondo in cui il margine per l’errore creativo, per la deviazione dal calcolato, sarà sempre più ridotto.

Abbiamo la responsabilità etica di porci queste domande, di chiederci non solo cosa possono fare di utile le AI per noi, ma perché le stiamo costruendo in un certo modo. E soprattutto, dobbiamo chiederci cosa ci perdiamo se seguiamo ciecamente questa traiettoria.

Luciano Floridi ha definito la nostra epoca come l’era dell’infosfera, un ambiente cognitivo in cui tutto è informazione, in cui la realtà stessa viene letta e tradotta in dati. Se siamo, come dice Floridi, informational organisms, allora la nostra esistenza è sempre più definita dai flussi informativi che ci attraversano. Ma l’errore di questa visione è ridurre la conoscenza al suo aspetto quantitativo, trascurando tutto ciò che ancora non sappiamo di non sapere.

Quello che proponiamo è una prospettiva radicalmente diversa: l’intelligenza non deve essere un processo di accumulo di dati, ma un processo di scoperta di ciò che non è ancora emerso.

Qui entra in gioco il concetto di ex-formation, introdotto dal designer giapponese Kenya Hara. Se l’informazione è ciò che già sappiamo e possiamo trasmettere, l’ex-formation è ciò che resta implicito, il non detto, il potenziale latente. L’AI di oggi lavora solo con l’in-formazione, ma un’AI del futuro, progettata secondo i principi del Noesis Design, dovrebbe essere un motore di ex-formation, uno strumento che ci aiuta non a trovare le risposte, ma a formulare nuove domande.

C’è una scena in Blade Runner che spesso passa inosservata, oscurata dalla potenza del monologo di Roy Batty sotto la pioggia. È un momento più silenzioso, meno epico, ma altrettanto significativo: il momento in cui Deckard, ormai esausto, fugge con Rachael. Nessuna musica trionfale, nessuna rivelazione grandiosa, solo il battito del cuore di un uomo che sa di non avere certezze. Rachael è un replicante, ma forse non importa. La sua durata di vita è incerta, ma anche la nostra lo è sempre stata. Il futuro si spalanca davanti a loro come uno spazio di pura possibilità, non più regolato da algoritmi o direttive predefinite.

E se la tecnologia potesse portarci esattamente a questo punto? Non a un mondo perfettamente ottimizzato, dove tutto è prevedibile, dove ogni percorso è calcolato con la massima efficienza, ma a un’apertura radicale all’imprevisto?

Blade Runner ci ha mostrato un mondo in cui l’umano e l’artificiale si confondono, in cui la memoria può essere impiantata e l’identità programmata. Ma ci ha anche suggerito che ciò che rende un essere vivo non è il codice genetico o la sua origine, ma la capacità di provare meraviglia, di desiderare qualcosa che non è ancora scritto.

Quando Roy Batty salva Deckard, non è per una logica calcolata, ma per un atto di pura scelta. Un gesto che non doveva esistere nei suoi parametri: a beautiful glitch, appunto.

Questa è la sfida che ci attende. Costruire un’AI che non sia solo una macchina di calcolo, ma una compagna di esplorazione. Un’intelligenza che non chiuda il futuro in modelli predefiniti, ma che lo spalanchi, che crei strade nuove invece di ottimizzare quelle esistenti. Un’AI che ci renda più capaci di stupirci, non solo di riconoscere pattern.

E allora il vero interrogativo non è se le macchine possano diventare più simili a noi, ma se noi siamo ancora capaci di diventare altro. Se abbiamo il coraggio di non limitarci a replicare il noto, ma di spingerci oltre, nel territorio inesplorato della possibilità.

Forse il futuro non è scritto in codice, ma in un linguaggio che ancora non conosciamo. Forse, come Deckard in fuga con Rachael, siamo solo all’inizio di qualcosa che nessuna macchina potrà mai calcolare.

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