Accettare quel che c’è e nient’altro, certi giorni, è devastante e la giornata diventa un po’ di m..
Ti sembra di avere in mano un gomitolo aggrovigliato, inestricabile, pieno di desideri e sogni popolati da ghepardi pronti a darti la zampata.
E’ una tragedia, grande o piccola che sia, è sempre una tragedia per chi la sperimenta.
Ma come dicevo nelle precedenti letterine di questo blog, l’arte sta proprio nello scovare la bellezza nelle tragedie quotidiane. Così diventiamo, nel nostro piccolo, artisti.
E se avete pazienza vi propongo il mio modo di vedere la questione. Sarebbe anche interessante se chi legge proponesse il suo.
Dicevamo, dunque, non solo desiderio da desiderare: ciò che in quel momento ti manca e non c’è, ma il desiderio divenuto necessità. Lo vuoi perché pensi di averne diritto ad averlo.
Diventa una questione di giustizia cosmica che travalica qualsiasi limite universale.
Cerchi di non pensarci, fai acrobazie con il pensiero, che neanche quelli de Le Cirque du Soleil saprebbero fare, pur di liberarti da quell’idea fissa che continua a girare nel tuo cervello come una moto lanciata a 340 all’ora sul circuito del Mugello.
Sembra che sia questione di sopravvivenza e senti come sentiresti il sapore dell’acqua dopo il 20esimo giorno di camminata in solitaria nel deserto del Sahara, che chi te lo ha fatto fare, che al massimo sei buono per una passeggiatina in centro.
Ma perché, scusa, l’acqua ha un sapore?
Si, anche le cose che sembra non abbiano niente a che fare con il gusto in situazioni normali, acquistano un sapore quando ne senti profondamente l’assenza.
La loro mancanza la percepisci proprio in bocca, cerchi di masticare ed ingoiare, ma quel niente si ferma a metà gola e da lì parte, contro la tua volontà, un impulso che arriva dritto agli occhi e questi cominciano ad inumidirsi… e non è per la cipolla che stai tagliando.
Saranno lacrime??
Porca miseria, non sono mica una femminuccia, che succede!!
Ma non è finita ancora!
Il cervello inizia a giocarti uno scherzo poco simpatico: scatena una batteria di ricordi che nemmeno i fuochi d’artificio della sera del 3 della festa di Sant’Agata a Catania.
A questo punto sei fregato. Rimani come affascinato dalle visioni che quei ricordi scatenano davanti ai tuoi occhi: di quando quell’acqua che adesso ti manca, accarezzava la tua bocca e ti dava gioia pura e profumata.
Ci sono due modi diversi di ricordare.
Uno è quello che gli psicologi chiamano memoria episodica che riguarda singoli eventi e situazioni che ci sono capitati nel passato. Questo modo di ricordare è soggetto fortemente all’azione del tempo che tende a cancellare o a trasformare i dettagli di questi eventi e quindi non è molto affidabile.
Un’altro modo di ricordare è invece molto più profondo e ritengo assolutamente più importante.
E’ la memoria di un passato che si è materialmente inscritto in te, nel tuo carattere, nella tua vita, nella tua essenza più intima.
In genere questo tipo di ricordo non è legato a singoli eventi ma più spesso riguarda persone con le quali hai percorso strade su cui avete posato i piedi uno accanto a quelli dell’altra e che, per ragioni diverse, adesso così non è più.
In questo caso ricordare è riconoscere come quella persona ci ha cambiato e come una parte di lei sia ormai “embedded” in noi, fa parte cioè di noi, del nostro essere e non è separabile, non più.
Poche persone mi hanno lasciato questo tipo di ricordo.
Sicuramente lo è mio fratello che non è figlio di mia madre, ma amico da quasi 40 anni, incontrato in un aula universitaria nei giorni pisani delle battaglie notturne tra studenti e paracadutisti della Folgore.
Una di queste persone è mio figlio.
Quando un giorno, aveva11 anni, con lo sguardo mi ha cercato tra gli spalti di una piscina dopo aver segnato il suo primo goal in una partita di pallanuoto.
Lui ha guardato me e solo me.
Adesso, che qualche anno è passato, preferisce guardare gli occhi a mandorla della sua ragazza, ma va bene così: lui non lo sa ma sono un uomo completamente diverso proprio per quello sguardo che mi ha rivolto pieno d’orgoglio, più di 11 anni fa.
L’altra persona, della quale ho ricordo del secondo tipo di cui accennavo, è una ragazza.
Lei non lo sa, ma con i suoi occhi grandi e neri per la prima volta mi ha fatto sentire padre di una figlia non mia.
E’ successo un giorno che il suo sguardo triste ha incrociato il mio, chiedendomi perché, alcuni non hanno proprio l’idea, neanche vaga, di cosa significa essere padre e della gioia che si prova ad ascoltare il respiro dei figli.
Stupidi padri che rincorrete i soldi e la carriera e che siete così stanchi la sera che quegli occhi neri non li guardate nemmeno e vi perdete tutto il mondo che ci sta dietro, le speranze, i dubbi e le gioie e le ansie e gli amori.
E tu, si tu, maledirai ogni giorno che non ti sarai goduto, ogni carezza non data a quei capelli quando ce li avevi a portata di mano, e ogni parola non detta e ogni abbraccio non dato.
Tu che padre non hai mai voluto esserlo perché per te era più importante essere che non esserci.
E tu che non hai capito che la libertà e la migliore espressione di te stesso li ottieni se segui l’attitudine a rimanere piuttosto che ad andare via.
Nella foto due ragazzi che danzano una danza che non ricordo quale fosse.
Quando ho scattato la foto ho incrociato i loro sguardi e ho compreso.
Ho avuto la fortuna di aver avuto accanto, per un po’, un’ acrobata: spesso ballavamo dovunque ci capitasse e lì eravamo altissimi toccando le nuvole.
Come i due ragazzi nella foto.
Adesso che i nostri sguardi non danzano più assieme ormai da qualche tempo, sembra come essere ad una festa quando la musica è finita: ti guardi attorno un po’ desolato, e ti mangi l’ultima pizzetta rimasta, e fredda pure.
Mi ritrovo certe sere a ricordare e, quando mi addormento, sogno il goal di mio figlio ed il suo sguardo e gli occhi neri della ragazza divenuta figlia e l’amico lontano.
E sogno di danzare ancora una volta con l’acrobata, sospesi assieme, su in alto su una fune, cercando di disobbedire alla gravità.
Però lei, di essere acrobata ancora non lo sa, perciò non diteglielo per piacere.
Il fatto è che, quando l’arcangelo Gabriele (protettore degli acrobati) ci ha fatto incontrare, lei aveva il disperato bisogno di una fune e io di un’acrobata.
Ma io la fune non l’avevo e lei non era ancora diventata un’acrobata.
Non solo, ma era già troppo tardi per tornare indietro: ci volevamo già bene.
Il punto fondamentale è che lei, “l’acrobata non ancora acrobata”, è stata la prima e l’unica a farmi venire veramente voglia di cercare una fune.
Ora rimane il ricordo del sapore dell’acqua, e immagino di avere quella fune e di provare a camminarci su in equilibrio instabile, allenandomi per quando il tempo, forse, arriverà.