Fracaso


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Si, con una sola esse: fracaso, non ho sbagliato a scrivere: è una parola in spagnolo che significa “fallimento”. L’ho imparata leggendo il blog del mio amico-fratello che fa il business therapist (se siete curiosi di sapere cosa fa un business therapist andate a vedere quello che scrive: antoniofontanini.com)

L’ho scelta, fracaso, perché, come capita spesso con la lingua sorella dell’italiano, alcune parole hanno una interessante assonanza con termini e significati della nostra lingua.

E’ evidente in questo caso che fracaso in spagnolo ci porta subito alla parola fracasso in italiano.

Ed infatti ai nostri occhi il fallimento è proprio un disastro che produce un gran fracasso.

Il fracasso è una strage, una rovina, una distruzione: crea sbandamento, confusione e suscita anche scalpore e scandalo.

Bene, quindi fracaso esprime perfettamente tutto ciò che il fallimento significa per noi: qualcosa da evitare a tutti i costi, sempre, come la peste nera.

Questa strenua ossessione ad evitare anche solo di parlare di fallimento, deriva da una idea che ormai pervade il mondo: il principio base è quello della Prestazione, della Performance.

La società ci considera di valore come individui solo se eseguiamo bene e nei tempi stabiliti il lavoro e i ruoli assegnateci: manager, medici, madri, padri, mariti, mogli, regolamentando per assurdo anche il ruolo di amante, compagno, migrante, amico.

Tutti valutano tutti in termini di prestazioni dovute e per queste viene riconosciuta una ricompensa, spesso in denaro, se vengono soddisfatte le performance richieste.

Riflettendoci con attenzione, questo significa che liberi non siamo, ma dominati dallo stress di dimostrare che “performiamo prestazioni” ogni ora, ogni giorno della nostra santa vita.

E non pensiate che ciò succede solo nell’ambito del lavoro: non è così.

Ci impongono prestazioni e procedure  anche in ambiti che dovrebbero essere immersi nella più assoluta libertà di espressione derivante dalla sensibilità e dai valori del singolo individuo.

Ci hanno detto, per esempio, che per essere bravi e moderni genitori bisogna impostare il rapporto con i propri figli sul dialogo continuo.

Lo stesso se parliamo di relazione amorosa tra marito e moglie o tra compagni: guai se non c’è dialogo, empatia, comprensione.

Ma che fesseria è quella di assumere che con il dialogo si preserva l’ amore.

Ma che castronaggine è quella di dire che devo esprimere empatia nei confronti del migrante e dello straniero che viene, non invitato, a casa mia.

Ritengo che ci nascondiamo dietro le parole dialogo, empatia, comprensione solo per evitare e tenere lontani in maniera definitiva e persistente gli esseri che sono “altri” da me.

Con il dialogo e l’empatia, mi costruisco uno scudo ed un perfetto alibi che esprime la mia volontà di non accettare l’altro come differente da me.  Non voglio considerare di valore queste differenze e anche queste lontananze: sostanzialmente, l’altro. Voglio “normalizzare” e renderlo il più possibile simile a me, perché il diverso da me mi fa paura, è il buio della mia anima.

Sosterrò sempre che l’amore per la propria compagna, per un figlio e per lo straniero si basa non sul dialogo ad ogni costo, né sull’empatia.

Amore è accettare e amare l’alterità dell’altro: il suo modo diverso di intendere il mondo, di fare esperienze, di desiderare la libertà, di imparare, di comunicare e di essere folle: a suo modo appunto.

Non voglio riempire il fossato che mi separa per cultura, tradizioni, religione dal migrante che viene da lontano: vorrei solo riuscire a gettare qualche ponte rispettando le nostre reciproche diversità e su queste tentare di costruire una relazione alla pari.

Ed in tutto questo devo mettere anche in conto come naturale il fallimento, la fine di una relazione, l’impossibilità di capire fino in fondo le scelte di mio figlio e le follie della mia compagna: in poche parole il “fracaso”, la fine che si realizza nonostante o forse a causa proprio dell’empatia, del dialogo e della comprensione da crocerossine.

Pensate che ci tengono come schiavi con il principio di prestazione, con il politically correct, con l’ostinata perversione a ritenere di valore solo quello che ha uno scopo utile e con i sensi di colpa se non siamo empatici e disponibili al dialogo.

Tua moglie se ne strafrega se dialoghi ma non la ami.

Tua figlia se ne sbatte che la comprendi e parli spesso con lei, ma non rispetti il suo modo diverso di stare al mondo.

Così come il migrante non trova particolarmente d’aiuto la mia empatia, anche perché ditemi voi come faccio io, avendo vissuto, con tutte le comodità di questo mondo, una vita facile ad empatizzare e cioè avere la capacità di immedesimarmi nel dolore di una persona che ha vissuto povertà e atrocità per me nemmeno immaginabili!!

Il principio di Prestazione efficiente che pervade il nostro stare al mondo ha generato una morale che vorrebbe esorcizzare, appianare, normalizzare lo scandalo di una differenza che non può essere rimossa: quella dell’altro da me.

E’ forse allora proprio dalla esperienza di questo fallimento di non riuscire ad evitare o rimuovere queste differenze che diviene possibile un amore senza prestazioni, senza richieste perentorie, senza battaglie, senza necessità imprescindibili.

Io ti amo non perché dialogo, cara compagna caro figlio, ma perché c’è in te qualcosa che mi sfugge e scopro in te un segreto che io non posso svelare, dove nessuna empatia o dialogo possono trovare posto.

Cosa fare se volessimo provare e ridurre il principio della prestazione ad ogni costo?

Giocare seriamente.

L’onnipresente principio di prestazione non ci permette più di giocare e cioè di fare qualcosa senza che sia strettamente utile o abbia uno scopo preciso. E così ci hanno tolto l’unica possibilità che abbiamo di essere felici: giocando.

Se invece accettiamo il fallimento come parte integrante di un gioco,  allora come quando da bambini facevamo apposta deragliare il trenino dalle rotaie per poi ricominciare e vedere l’effetto che fa, così  non ci rimarrebbe che ripartire, utilizzando il fracaso come trampolino per un altro pezzo di strada e scampolo di vita concessaci.

Nella foto un ragazzo in una piazza a Barcellona che gioca a fare acrobazie con lo skate: lui ha messo in conto di cadere come parte del gioco. Mi ricordo di averlo visto felice.

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