Alcuni, quando viaggiano per andare da qualche parte, pianificano attentamente il percorso che devono fare, prevedendo nel dettaglio i tempi e i punti intermedi per raggiungere la meta nella maniera più efficiente possibile: cioè nel minor tempo e risparmiando energie. Energie che possono essere di diverso tipo: mentali, fisiche ed economiche, anzi soprattutto queste ultime: denaro in buona sostanza.
Poco o punto spazio viene lasciato al caso e all’improvvisazione: come in un processo gestito da un computer sanno esattamente che dopo A viene B e sicuramente poi C. Prendono l’autostrada che, senza deviazioni, li porterà alla massima velocità possibile, in tutta sicurezza, o quasi, lì dove hanno programmato di essere. Tutte le indicazioni necessarie, su dove sono in quel preciso momento e se sono nella direzione giusta, vengono date con regolarità costante lungo tutto il tragitto programmato: così ci si sente veramente sicuri. Inoltre se dovesse venire fame improvvisa quanto impellente si dovrà solo aspettare qualche chilometro e ci sarà un autogrill con tutto quello che necessita: fantastico!
Altri, per arrivare dove vogliono arrivare, preferiscono modi più lenti, più lunghi e tortuosi sprovvisti di indicazioni così frequenti come quelle che normalmente si hanno lungo un’autostrada: in questo caso vogliono essere certi di arrivare alla meta, ma devono mettere in conto qualche imprevisto: durante il viaggio soffriranno di una certa insicurezza derivante dal non sapere dove esattamente sono in un preciso momento e in che tempi esatti arriveranno a destinazione.
Questi soffriranno di un certo grado di imponderabilità: è per esempio il caso di chi preferisce per arrivare da qualche parte, prendere una nave, un piroscafo, un battello: una mareggiata improvvisa può costringere a riparare temporaneamente in un porto che non era stato programmato nella pianificazione del percorso fatto prima di partire.
Alcuni di questi ultimi, per ridurre le problematiche di insicurezza e imponderabilità accennate prima, si inventano un sistema che originale non è ma, per ridurre le ansie di cui sopra, può funzionare, anche se non sempre. Sono coloro i quali decidono di andare per mare con mezzo galleggiante adeguato alle condizioni, ma scelgono pur tuttavia di far trainare il natante su cui si sono imbarcati da un rimorchiatore con potenti motori che sia in grado di trarre d’impiccio la barca da tempeste improvvise che possono sempre capitare lungo la traversata.
Anche se a loro sembra di essere al comando, in realtà è chi guida il rimorchiatore che definisce rotta e velocità.
Molte volte chi si affida a questa modalità di navigazione, che chiamerei assistita, non si premura di dotarsi, in caso di necessità o volontà di cambiamenti vitali, di adeguate tronchesi per tagliare la cima che lo trascina al seguito del potente rimorchiatore.
Imprudenza, che solo alcuni ritengono tale, viene resa ancor più grave se si nota che i rimorchiatori invece, tutti i rimorchiatori, posseggono una cesoia potentissima in grado di tagliare, senza esitazioni, la fune che traina l’imbarcazione nel caso si rendesse ciò necessario per casi che solo il comandante del rimorchiatore può valutare.
In questi casi coloro che avevano affidato la loro barca alle forze e alle volontà del rimorchiatore, si trovano improvvisamente, ma prevedibilmente, in balia delle onde senza sapere dove si trovano, né quanto dista il primo porto per un ricovero necessario.
E’ come se Ulisse per il suo viaggio, scorrazzando nei mari del mondo, avesse deciso di far trainare la sua barca da un’altra triremi, magari con equipaggio e comandante originari di Troia. Converrete che non sarebbe stata una mossa geniale anche se apparentemente potrebbe sembrare una scelta dettata da adeguata prudenza. Raccontata così sembra assurdo, ma molti fanno proprio così, con buona pace di Ulisse e del “seguir virtute e conoscenza”.
Altri ancora, ma sono veramente pochi, decidono di andare per mare surfando, appoggiati provvisoriamente ad una tavola per tentare di cavalcar le onde. In questo caso ci troviamo direi proprio in un altro mondo, rispetto ai casi precedenti.
I pochi che si avventurano in tale modo, scriteriato per i più, di percorrere vie, infatti non solo non dispongono di indicazioni, né di accessori che garantiscano di rimanere sulla tavola sino alla riva, ma essi stessi cercano il caso e l’imponderabile e su questi basano il loro più genuino piacere. La prossima onda per surfare non sanno quando comparirà, l’aspettano solamente. Non sanno quanto alta sarà né quando la sua cresta si ripiegherà su se stessa, chiudendo l’ imprudente surfista dentro una gabbia di acqua che lo centrifugherà nelle profondità.
Cavalcare un’onda dura una ventina di secondi più o meno: quindi tanti rischi, tante incertezze, un abbandono al caso per qualcosa che è così momentaneo, caduco, che termina così velocemente, così effimero, ma anche così leggero e così veloce che sembra di volare.
Così, di onda in onda, cercando quella che permetta di proseguire la cavalcata per altri 5 secondi e poi un’altra per tentare ancora: stavolta però la forza è immane e per un attimo si rimane sospesi in aria per poi cadere giù nell’abisso d’acqua dove ogni riferimento spaziale e temporale viene eliminato e bisogna solo affidarsi alla fisica dei corpi galleggianti e alla benevolenza dell’onda stessa che decida ad un certo momento di sputar l’intruso di nuovo in superficie.
E poi ricominciare.
Perché farlo? Perchè scegliere questo modo assurdo di andare? Perché tante e continue cadute e poi di nuovo su per poi cadere ancora seguendo il volere dispettoso del caso e dell’imponderabile?
Non so dirvelo, ma c’è qualcosa di affascinante in questa visione del modo di andare e di attraversare la vita che a me sembra molto reale e vero.
Mi dicono, i surfisti, che è controintuitivo andare per onde con la tavola da surf: per questo è necessario tanto allenamento e soprattutto iniziare quando si è molto giovani: i circuiti cerebrali devono plasmarsi su modalità che dobbiamo recuperare dal nostro cervello ancestrale.
Altro fatto che ritengo interessante e per questo lo riporto qui a titolo di esempio di un certo modo di andare per le strade che ci siamo scelte, mi dicono, quelli che fanno surf, che è necessario entrare nell’ordine di idea che bisogna cadere, spesso e anche volentieri: e non è una frase fatta. Questo perché chi non cade vive nel terrore di cadere ed è assai facile che nella traversata faccia di tutto per resistere in piedi, proibendo alle gambe il minimo cedimento.
E’ questa resistenza, questa strenua volontà di appigliarsi a qualcosa che è per sua natura instabile ed in continua e casuale trasformazione e quindi non permette che ci si aggrappi: si possono solo poggiare con dolcezza i piedi sulla tavola ed andare sapendo che per certo si cadrà.
Cadere è parte della traversata e può essere piacevole, non sempre, ma a volte si: estremamente piacevole sentirsi effimeri e leggeri.
Non si tratta, mi dicono, di avere coraggio nell’affrontare onde che a volte sono immense e rabbiose, ma è questione di attuare una specie di “sorveglianza attiva” che significa non mettersi in testa di avere l’onda che piace, ma solo aspettare in maniera attenta per cavalcare l’onda propizia che il caso consegnerà prima o poi e a quel punto tentare di salirci su senza garanzie di quel che succederà; anzi sapendolo esattamente: poco dopo l’onda disarcionerà il surfista, inevitabilmente ed inesorabilmente.
Rimane a questo punto sospesa una domanda legittima: perché mai dovrebbe interessare saperne sui modi del surfista quando per carattere, educazione e cultura si è deciso di andare con modalità diverse? Chi l’ha detto che fare surf sia meglio che farsi beatamente trascinare da un rimorchiatore in tutta sicurezza e con poco sforzo?
Ecco qui, non casualmente, mi fermo.
Perché proprio in questo, credo, risiede il senso più profondo e ultimo delle parole caos, crisi, fallimento, caduta: un passaggio necessario, a volte non completamente piacevole, dopo il quale molte certezze e molte sicurezze saranno convertite in altro ed una nuova consapevolezza inquadrerà il modo in cui noi vediamo il mondo e le circostanze che ci capitano.
Guardare ad altri modi e mondi non necessita di aderirvi nella quotidianità (non voglio essere un surfista per esempio), ma permette di vedere se stessi ed il modo in cui viviamo da altri punti di vista: ci apre possibilità di interpretazione delle cose che ci capitano e forse un giorno nuovi modi di agire che possano ridurre angosce e il sentimento di ingiustizia e rabbia che ci pervade in ogni momento.
Uno spaesamento necessario per riconciliare noi stessi con la natura e con gli altri.
E’ venuta l’ora, penso, di cominciare a dire “no” ad alcuni modi rigidi ed infelici di andare per il mondo, attaccati come ventose e con la mano chiusa a stringere non si sa cosa di così importante. Questi “no” sono negazioni di un mondo che non ci sta bene ed allo stesso tempo rappresentano una apertura ed una invocazione alle possibilità di molti futuri “si”.
Per legge della fisica vuoto e pieno, materia e antimateria vivono assieme sempre ed inseparabilmente: seguendo tale legge l’onda prima ci porta su e poi ci tira giù: in questo non c’è male, né destino avverso, ma solo un principio che avremmo dovuto comprendere ormai da tanto tempo visto che è nato con l’universo di cui facciamo parte.
Ma forse sarà meglio che le prossime volte io mi limiti a parlare di investimenti in borsa o dell’ultima dieta vegano-omeopatica o di quanto fa bene il cibo biologico!
E allora saranno felici di aver sentito parlare un uomo così interessante e ragionevole.