
Non credo sia un buon affare affrontare i problemi investendo di più nella loro soluzione.
Se ascoltiamo il buon senso comune di moda oggi, questo sembra assolutamente controintuitivo rispetto a quello che ci insegnano a scuola, nelle università o stando alle decisioni che molti manager e imprenditori prendono in tempi difficili in cui i problemi sembrano moltiplicarsi in maniera virale.
Quanto più è complesso il problema e più aggressivo il panorama concorrenziale e più risorse vengono investite dai competitor e più tecnologia viene proposta per migliorare la situazione, tanto più allora risultano come conseguenza: più complicazioni, più spese, più procedure, più personale, più debiti, più responsabilità da mettere in campo per cercare di stare al passo e continuare a svilupparsi e a crescere. Senza sviluppo né crescita continua, ci dicono tutti, pare non ci sia alcuna possibilità di sopravvivenza.
“Il più” è in genere la risposta più facile e semplice, instillata nella nostra mente sin da bambini. Vi ricordate? La maestra chiama i vostri genitori e, visto che i voti sono bassi, l’UNICA soluzione proposta è quella che il ragazzo deve studiare di più. Punto.
Molte volte, però, “il più” non è né la soluzione più efficace (non raggiunge gli obiettivi voluti), né quella più efficiente (necessita una quantità di risorse eccessive), né particolarmente innovativa (lo fanno tutti, o quasi).
Perché allora ci ostiniamo a rendere la vita come la corsa dei criceti nella ruota: stancante, inutile, stressante, senza significato, direi senza umanità e spesso con risultati economici discutibili?
Lo ripeto, non sono fautore dell’anti-crescita o anti-profitto.
Mi interessa perché, avendo avuto a che fare con il mondo delle aziende da quasi 40 anni, guardo i comportamenti che la nostra “evoluta” cultura e società ci spinge ogni giorno ad adottare e i risultati non proprio entusiasmanti che ne conseguono, e allora mi chiedo se non sia arrivato il momento di mettere in discussione alcuni modi di agire e pensare da robot e domandarsi se esiste un modo migliore e più brillante di andare avanti.
Un modo più brillante e meno alienante di condurre un’ azienda o la nostra vita. Un modo che rifiuti il pensiero unico sul significato del successo professionale o personale come ce lo raccontano le scuole di business o la cultura dominante.
E se per prosperare e vivere bene non fosse sempre necessario avere alla base una mentalità tecnologica o da start up ? Anche se automazione e connettività entro certi limiti possono aiutarci sicuramente.
E se, per puro caso, l’innovazione utile, quella che migliora la vita degli altri, non fosse un processo lineare ed improvviso come una luce che si accende all’improvviso nel cervello di un giovane “startapparo”, ma piuttosto il frutto di una profonda conoscenza delle regole del gioco dello specifico settore, trovando poi il sistema di infrangere e sovvertire quelle stesse regole e accettando il caso e il caos degli incontri fortuiti con eventi e persone? Innovazione= conoscenza+caso
Per favore non credete alle ca***te che raccontano sulle start up: basterebbe conoscere alcuni fatti per non cascarci:
– Il modello delle start up è nato nella Silicon Valley intorno agli anni ’80, nel settore specifico dello sviluppo del software. Non è detto che questo modello funzioni in altri contesti economici, territoriali e sociali. Infatti oggi…
1 – Il 90% delle start up fallisce.
2- La causa principale del fallimento è: non capiscono il mercato in cui vogliono entrare!
3 – Un’altra importante causa di fallimento è la mancanza di cash e/o eccessivo debito che non riescono a ripagare con gli esigui profitti conseguiti (la mania di partire in grande da subito con i soldi dei venture capitalist e la “malattia del più” che gonfia le spese generali).
Il bello è che ce lo propongono come modello virtuoso, consigliando di inglobarlo dentro le aziende per velocizzare il processo innovativo. Non funziona: le aziende sono progettate per sopravvivere evolvendosi, non per crescere e innovare continuamente.
E’ il processo di evoluzione progressiva e sostenibile che permette alle aziende di adattarsi efficacemente agli eventi che la realtà del territorio prospetta e non certo la crescita a 360 gradi o il così detto progresso continuo.
L’azienda è un sistema complesso, ma contrariamente a quello che molti pensano, un sistema complesso non ha necessità di strutture e procedure complesse. Anzi più semplice è, meglio è. Aggiungendo a dismisura tecnologie, strutture, team di progetto, prodotti, processi, sistemi di controllo e via di seguito, complicando insomma, non si fa altro che innescare reazioni a catena che moltiplicano gli effetti inaspettati. E poiché questi effetti sono difficili appunto da prevedere, la reazione istintiva (ma venduta come razionale e ineludubile) porta i manager e l’imprenditore ad investire ancora più risorse in sistemi previsionali, in big data, in tecnologie digitali, in analisti e ricercatori di mercato, innescando un circolo vizioso che porta spesso alla rovina dei profitti e mette a rischio la sopravvivenza dell’azienda.
Il risultato di tale atteggiamento? Questo:
negli anni ’70 la permanenza media di un’impresa all’interno dell’indice S&P era di circa 25-30 anni, oggi in media un’azienda può aspettarsi di rimanere in media nell’indice delle 500 aziende americane a maggiore capitalizzazione per circa 15 anni.
Alcune è vero, proprio perché ancora profittevoli, scompaiono dall’S&P 500 in quanto acquisite da altre aziende. Ma sono poche.
E le altre? Il mainstream dei venditori di falsi miti dice che è colpa del fatto che non sanno innovare abbastanza.
Ma come, le aziende che stanno nel gota mondiale per capitalizzazione non sanno innovare?
E allora delle due l’una: o non ci intendiamo sul significato di innovazione e sul come innovare oppure l’innovazione tecnologica, se mal implementata, per se è distruttiva!
E distruggere risorse, sprecare talento, licenziare, produrre crack finanziari non ha niente a che vedere con il progresso o la presunta e ignorante idea che bisogna fallire tanto e presto per avere successo! Questo sarebbe accettabile solo nel caso in cui chi fallisce non rovina anche altri senza pagarne le conseguenze.
Skin in the game, ricordate?
Quindi?
Partiamo allora con il guardare in faccia la nostra ignoranza sui sistemi complessi a cui un’azienda deve essere assimilata, sia essa piccola e radicata in un territorio, oppure grande e globalizzata.
E quando si cercano di governare i sistemi complessi il trucco è quello di “ lavorare duro per ripulire il tuo pensiero e renderlo semplice” come ripeteva spesso Steve Jobs.
Non è facile integrare la semplicità nella vita moderna o nelle aziende: soprattutto perché “è contraria allo spirito di una certa categoria di individui che inseguono la sofisticazione per giustificare la propria professione” ( tratto da “Antifragile” di Nassim Thaleb).