Chissà perché pensavo a New York come ad una città talmente oppressa da grattacieli altissimi, da strade che sembrano strettissime per ragioni di prospettiva, dove fosse assolutamente impossibile vedere il sole, che fosse impedito, a chi la visita come a chi la abita, la visione di aurore e crepuscoli, di piogge e soli incandescenti.
Mi sono chiesto più volte, prima di partire, cosa andavo a fare in un luogo dove di sicuro non avrei potuto vedere deserti e montagne, foreste e campagne, aurore boreali e arcobaleni e nuvole.
Nel mio immaginario una città costruita come una foresta di grattacieli immensi, che riflettono se stessi all’infinito come nel gioco dei due specchi messi uno di fronte all’altro, non mi avrebbe mai permesso di gustare un riflesso della luna sul mare argenteo in una sera d’estate, né avrei mai potuto godere del fascino dei vicoli stretti e coloratissimi di una strada andalusa.
Ero sicuro che la molteplicità dei paesaggi che ci si immagina di esplorare quando si parte, soprattutto verso un altro continente, sarebbe stata annientata dalla unicità e ripetitività di una megalopoli come New York.
Ero convinto che in una megalopoli il diverso si sarebbe perduto e mi sarei trovato a ritornare, per tutti i giorni che vi avrei trascorso, sempre negli stessi posti, con gli stessi grattacieli, le stesse strade tinte di giallo degli infiniti taxi che le percorrono e gli stessi negozi extralarge sfarzosamente illuminati.
MI sono accorto invece, quando ero già sull’aereo ritornando verso casa, dopo aver trascorso a New York quasi una settimana che viaggiare per penetrare il mistero ed i segreti di una civiltà diversa (quella americana è senza dubbio diversa dalla nostra mediterranea) conduce ad incorrere a dei malintesi, a dare per scontate alcune impossibilità e a vedere deluse alcune aspettative che normalmente è legittimo avere quando si parte per andare così lontano.
Ora so che se decido di viaggiare per luoghi a migliaia di chilometri di distanza, lo faccio perché finalmente posso acconsentire a sogni di infanzia in cui la visione di terre esotiche lontane si intreccia sempre ad avventure che hanno come ingredienti fondamentali animali ferocissimi, bucanieri su navi impossibili e ragazze dai profumi inebrianti.
Ora mi domanderete, ma scusa Enrico pensavi di trovare tutto questo a New York?
Ecco, se proprio devo essere sincero, no, ma nel più profondo recesso del mio cuore lo speravo.
E l’ho trovato!
Certo non sto dicendo che ho incontrato animali feroci, come pantere e tigri della Malesia con le esatte sembianze di queste, ma qualcosa di molto simile, si.
E ragazze dai profumi inebrianti pure.
E bucanieri anche.
Anche bucanieri? Nooo??!!!
Si, ora non per fare il saputello, ma il termine bucaniere viene dal francese Boucanier ed indicava, nei Caraibi del XVII secolo, cacciatori di frodo che avevano l’abitudine di affumicare la carne in una graticola di legno.
E’ da questo metodo chiamato barbicoa che deriva il termine barbecue per il quale gli americani vanno pazzi e che rappresenta il massimo, per loro, della convivialità e allegria durante i weekend nei giorni di sole.
Vi posso assicurare che nella zona residenziale della Columbia University che si trova nell’Upper West Side dopo il Central Park, un sabato all’ora di pranzo, c’era per le strade un odore di barbecue così intenso che sembrava di stare ai Caraibi durante i baccanali dei peggiori bucanieri di Santo Domingo.
E altro è successo, nei giorni seguenti: sono riuscito a vedere tutte quelle cose che popolavano i miei sogni di bambino e che ero in qualche modo sicuro di non aver mai potuto vedere in una città come New York dove immaginavo che la modernità, la tecnologia, il progresso e la finanza rampante avessero annullato del tutto qualsiasi riferimento a misteri, avventure, scoperte.
Penso che ciò sia dovuto al fatto che quando viaggiamo per terre a noi ignote, il primo viaggiatore che incontriamo siamo noi stessi e con lui i nostri sogni di bambini.
Questi sogni rimangono nascosti a noi da quando qualcuno decide che siamo divenuti adulti ma che anche da adulti ci portiamo dietro senza accorgercene come una coperta di Linus.
Quando siamo lontani da casa in luoghi non familiari, l’altro nostro io viene fuori e cominciamo a percepire, a vedere in maniera completamente diversa.
La nostra parte di ciò che siamo o crediamo di essere quando siamo nei posti in cui abitiamo o siamo cresciuti, non permette all’altra parte dell’io di uscire.
Ma all’estero questa nostra abituale e pervicace identità comincia a fluttuare, senza appoggi e senza punti di riferimento, e allora la parte di noi esploratore-viaggiatore-bambino può venir fuori e cominciamo finalmente a vivere.
E’ una scoperta magnifica e ci sentiamo leggeri e allora vediamo foreste e campagne e aurore boreali e animali feroci bellissimi e bucanieri lì dove non avremmo mai immaginato di trovarli.
O di ritrovarli dopo tanto tempo che l’ultimo sogno di bambino si è spento.
Nella foto che ho fatto in metropolitana a New York una domenica mattina, vi è la testimonianza che i bucanieri esistono veramente a New York.
Bisogna solo saperli scovare, indossando occhi da bambino.
La macchina fotografica mi ha aiutato in questo.