The life essence and the essence of the toaster


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Il tostapane è un oggetto imperfetto.

E come ogni “essere” imperfetto diventa il destinatario, impassibile in questo caso, dei nostri improperi nei suoi confronti quando ci arrostisce le fette di pane facendole diventare tizzoni neri come carbone: cioè quando si premette di non fare bene quello per cui l’abbiamo comprato: dorare il pane e renderlo così croccante che ci possiamo spalmare sopra uno strato di delizioso burro e fantastica marmellata di arance amare.

Siamo fatti così: “ Tu devi fare esattamente quello per cui ti ho scelto e, con sacrificio, pagato. E che cazzo!!!”

E questo anche se non sappiamo (conosciamo) che, per esempio, differenti tipi di pane dorano in tempi diversi e a temperature diverse.

Ma il Nostro (tostapane) è stato dotato solo di una manopola che definisce certe temperature per certi tempi, punto.

Noi ignoriamo se il pane che abbiamo comprato oggi dora dopo 3 minuti a 120° oppure ce ne vogliono 5. La differenza alla fine sarà tra una fetta di pane grigliata a dovere o un pezzo di nero carbone; oppure tra una fetta tostata così così ed una invece dorata alla perfezione: come esattamente piace a noi.

E allora che fare?

Ci ha pensato un’azienda di piccoli elettrodomestici per la casa: la Breville (https://breville.com.au/collections/toasters/products/the-smart-taost-4-slice-long-slot?variant=35290135058)  ed il suo designer Richard Hoare.

Senza proporre chissà quale innovazioni o definitivi cambiamenti tecnologici, ma solo aggiungendo un pulsante che si chiama “ A BIT MORE” : semplicemente. In italiano sarebbe “ ancora un pò”.

Cosa possiamo fare con il bottone “A Bit More” ?

Una cosa che mi affascina per la sua capacità di rendere il mio pane tostato così come lo voglio io.

Premendo il pulsante una volta che è iniziato il processo di tostatura dopo qualche minuto, e sicuramente prima che il pane bruci, automaticamente il pane esce dalla fessura per farsi dare un’occhiata da me e se voglio che si dori ancora un pò tocco il tasto: il pane ritorna dentro la fessura e dopo poco riesce per farsi dare un’altra occhiatina: ti piaccio così? se si lo prendo, se no premo di nuovo il pulsante. Alla fine avrò il mio pane tostato come cazzo dico io.

Semplice no? Ma nemmeno così scontato visto che tutti gli altri tostapane in commercio sono progettati su elementi quantitativi: quale temperatura, quanto tempo, ecc..

Richard Hoare, il designer, in questo caso ha dovuto pensare su un piano completamente diverso. Certo non ha fatto ricerche di mercato per sapere quello che la gente voleva per un nuovo tostapane: dobbiamo renderci conto che noi non sappiamo, quasi mai, cosa veramente vogliamo!!

Hoare non si è concentrato su quello che la gente desidera, ma piuttosto sull’essenza di un oggetto in questo caso il tostapane: come faccio a dare più controllo a chi usa il tostapane la mattina tra mille cose nella testa e i bambini che non si alzano dal letto e io che mi dimentico che ho riacceso il tostapane perché il pane era ancora bianco, ma lui, quel bastardo, ha riavviato l’intero ciclo, col risultato che adesso il pane è bruciato??!!

Il tasto “ A Bit More” non reinventa il tostapane e non cambia il mondo: tutto rimane fondamentalmente lo stesso, ma solo con qualcosa di meglio che mi permette un maggiore controllo sul processo di tostatura, evitandomi quel piccolo inferno del pane bruciato la cui ferale notizia arriva con l’odore penetrante nella camera dei bambini che sto cercando di far uscire dal coma, finto:  quei due matti che a scuola non vogliono andare (come dargli torto, a proposito di scuola!!).

MI direte a questo punto: senti, io il tostapane non lo uso e della Belville e del suo designer e di come sono fatti i tostapane sinceramente non me ne può fregare di meno.

Ok. La faccenda del tostapane sicuramente non è questione di vita o di morte, però l’idea del tasto “ A Bit More” possiede un fascino ed un significato che va la di là dello stupido tostapane.

Cosa mi affascina della faccenda?

Primo: che per avere una vita un pò meno infernale basta fare qualcosa, piccole cose senza aspettare di rivoluzionare le nostre vite con chissà quali decisioni definitive: bastano piccole cose, piccoli accorgimenti che evitano quei tanti piccoli inferni quotidiani che non ci ammazzano, ma che rendono a volte le nostre vite un disastroso pozzo di ansie.

Per stare in questo mondo in modo umano non abbiamo bisogno di passioni travolgenti, né certo di rassegnarci ad una noia pervasiva.

Ma adattarci, compiendo piccoli passi, ad alcuni aspetti della natura che sono al fondamento del vivere, rifuggendo come la peste nera il concetto di vivere felice.

Solo un passo dietro l’altro così come ci insegnavano i contadini di un tempo che si arrendevano al passare delle stagioni e che non contrastavano la natura, né la forzavano ma semplicemente facevano tutto ciò che era necessario per assecondare le opportunità che Lei avrebbe offerto “naturalmente “: un passo alla volta: “a bit more”.

Secondo: forse è arrivato il momento di abbandonare l’idea della necessità a tutti i costi della conoscenza come elemento primario del nostro percorrere la vita.

Noi non conosciamo, punto.

Solo partendo da questa evidenza possiamo muoverci verso una più approfondita visione dell’essenza del mondo che ci circonda e delle persone che ci interessano.

Il designer ha creato il tasto “A Bit More” non attraverso un processo scientifico di conoscenza ed analisi.

Ha solo guardato all’essenza del tostapane e all’essenza dell’essere umano che spesso per rendersi la vita più semplice ha bisogno non di stravolgenti innovazioni tecnologiche ma di maggiori possibilità di controllo. Esattamente come il contadino di un tempo che controllava il cielo la mattina e decideva se seminare o era tempo di sarchiare ancora il terreno.

Potremmo scegliere di passare quindi dall’angoscia di sapere, e dalla sua impossibilità, al fare, al creare scenari e soprattutto provare e fallire e riprovare.

Poco spazio alle passioni che sono un ossessivo concentrarsi sul proprio essere e sui sentimenti che pensiamo reali ma che invece sono frutto  della visione romantica che dal ‘500 pervade la letteratura, la musica, la psicologia meno evoluta e soprattutto la pubblicità che ci beviamo ogni giorno in quantità industriali.

Quest’ultima si fonda sulle passioni e sui nostri sentimenti portandoli in magnifica evidenza e dandogli quell’importanza che sta alla base del meccanismo della pulsione continua a consumare.

Passioni e sentimenti, portati a questi livelli esasperati, non ci permettono di vedere la differenza tra una ossessione che si subisce (la compulsione a consumare per esempio) e un destino che invece si sceglie.

Potremmo allora tentare un passo che ci porti lasciando l’ossessione per la conoscenza e per il nostro essere o essenza (mito un pò troppo mitizzato del “conosci te stesso”) verso una vita fatta di “fare”, di costruzioni e tentativi, sporcandosi le mani, evitando di fermarsi solo a pensare e progettare.

Siamo molto più bravi a fare che a pensare correttamente.

Permettiamoci di evolvere continuamente senza bloccare niente e nessuno dentro il nostro desiderio di possedere mettendo davanti il nostro  pseudo diritto alle passioni e ai sentimenti.

Alla vita non importa un fico secco dei nostri sentimenti, né delle passioni che ci dominano. La vita vuole evolvere “A Bit More” e noi questo processo a volte lo blocchiamo trattenendo cose, desideri, persone e così la vita muore. La nostra. Nel vero senso della parola.

Le culture asiatiche, quella cinese o giapponese per esempio,  sono nate e cresciute con una filosofia di approccio alla vita completamente diverse dalla nostra.

Non avendo avuto un Aristotele o un Socrate come genitori, hanno sviluppato un approccio dove alla base non c’è l’essere, ma il processo del vivere e del fare.

Meno pensieri basati sull’essenza, sulle passioni e i sentimenti e più vita come processo evolutivo basato sul fare e sul seguire gli accadimenti e da questi ricercare quotidianamente di trarne il meglio.

Non so chi  stia meglio, loro o noi occidentali con la nostra ricerca spasmodica di voler essere sempre qualcosa e qualcuno.

Ma questo non è rilevante. Rilevante è sapere che alternative al nostro modo di vedere e pensare esistono e funzionano anche.

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Ore giapponesi


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A volte si parte per una destinazione con la voglia di scoprire, immaginando che al ritorno si possano portare indietro ricordi chiari, sensazioni nette su ciò che si è visto e su quello che  è capitato nel corso del viaggio.

E  a volte proprio questo non capita, anzi a Vincenzo capitò esattamente l’opposto: non sapeva dire cosa aveva visto se non con sintetiche espressioni del tipo: bello, interessante, curioso, ecc..

Amici, colleghi, parenti domandavano per conoscere di più su quel paese lontano e un pò esotico che lui aveva visitato in un viaggio con il figlio, ma lui rimaneva un pò inebetito di fronte alla loro legittima curiosità: non sapeva bene cosa rispondere, aveva le idee confuse, mille immagini  si affastellavano nella sua testa, ingarbugliavano i suoi pensieri e le parole uscivano dalla sua bocca banali e un pò insulse.

Alcune trasformazioni sono trasformazioni lentissime e silenziose e per questo non si percepiscono se non nel momento in cui producono eventi ed impatti sulla nostra vita così rilevanti che rimaniamo attoniti domandandoci come è possibile che siano avvenuti così all’improvviso.

Nella realtà si preparavano, quegli eventi, da lungo tempo, solo che Vincenzo non se ne accorgeva perché i deboli segnali si mescolavano nella prassi con le sue abitudini quotidiane, nascondendoli alla sua vista con abilità da giocoliere.

Dei nostri giorni davvero importanti, di quelli che cambiano il nostro destino, di quelli che precedono una rivoluzione, non resta quasi mai una traccia. Talmente grande è la scossa che dimentichiamo gli avvenimenti che hanno preceduto quei giorni fatali e non sappiamo ricostruire fatti, avvenimenti, persone che ci hanno condotto, quasi a nostra insaputa, sino a lì.

Quel viaggio a Vincenzo aveva sconvolto il normale procedere della sua vita ed il modo di vedere il mondo, ma non sapeva né raccontare, né ricostruire cosa esattamente fosse avvenuto.

Solo di una cosa era certo: tutto non sarebbe più stato come prima.

Vincenzo si ritrovava adesso dopo il viaggio in Giappone con dubbi, tanti, ed una sola certezza: che il dubbio è più affascinante della certezza perchè il dubbio ci riguarda, è una domanda rivolta a noi, dunque rivela qualcosa di noi a noi stessi e ci permette di investigare l’ignoto.

E’ un viaggio di quelli che trasformano, non sai bene come e non ne sai il risultato finale: il viaggio, in questo caso, non ha una destinazione certa.

Questi erano i pensieri e le sensazioni che Vincenzo aveva provato subito dopo aver poggiato  piede a casa di ritorno dal viaggio in Giappone.

Di lui dopo quel viaggio ci si poteva chiedere, a ragione, se era un imbecille o un genio senza sapere quale fosse la risposta giusta: e questo aveva un certo fascino ai suoi occhi.

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Il surf e le leggi dell’universo


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Alcuni, quando viaggiano per andare da qualche parte, pianificano attentamente il percorso che devono fare, prevedendo nel dettaglio i tempi e i punti intermedi per raggiungere la meta nella maniera più efficiente possibile: cioè nel minor tempo  e risparmiando energie. Energie che possono essere di diverso tipo: mentali, fisiche ed economiche, anzi soprattutto queste ultime: denaro in buona sostanza.

Poco o punto spazio viene lasciato al caso e all’improvvisazione: come in un processo gestito da un computer sanno esattamente che dopo A viene B e sicuramente poi C. Prendono l’autostrada che, senza deviazioni, li porterà alla massima velocità possibile, in tutta sicurezza, o quasi, lì dove hanno programmato di essere. Tutte le indicazioni necessarie, su dove sono in  quel preciso momento e se sono nella direzione giusta,  vengono date con regolarità costante lungo tutto il tragitto programmato: così ci si sente veramente sicuri. Inoltre se dovesse venire  fame improvvisa quanto impellente si dovrà solo aspettare qualche chilometro e ci sarà un autogrill con tutto quello che necessita: fantastico!

Altri, per arrivare dove vogliono arrivare, preferiscono modi più lenti, più lunghi e tortuosi sprovvisti di indicazioni così frequenti come quelle che normalmente si hanno lungo un’autostrada: in questo caso vogliono essere certi di arrivare alla meta, ma devono mettere in conto qualche imprevisto:  durante il viaggio soffriranno di una certa insicurezza derivante dal non sapere dove esattamente sono in un preciso momento e in che tempi esatti arriveranno a destinazione.

Questi soffriranno di un certo grado di imponderabilità: è per esempio il caso di chi preferisce per arrivare da qualche parte, prendere una nave, un piroscafo, un battello: una mareggiata improvvisa può costringere a riparare temporaneamente in un porto che non era stato programmato nella pianificazione del percorso fatto prima di partire.

Alcuni di questi ultimi, per ridurre le problematiche di insicurezza e imponderabilità accennate prima, si inventano un sistema che originale non è ma, per ridurre le ansie di cui sopra, può funzionare, anche se non sempre. Sono coloro i quali decidono di andare per mare con mezzo galleggiante adeguato alle condizioni,  ma scelgono pur tuttavia di far trainare il natante su cui si sono imbarcati da un rimorchiatore con potenti motori che sia in grado di trarre d’impiccio la barca da tempeste improvvise che possono sempre capitare lungo la traversata.

Anche se a loro sembra di essere  al comando, in realtà è chi guida il rimorchiatore che definisce rotta e velocità.

Molte volte chi si affida a questa modalità di navigazione, che chiamerei assistita, non si premura di dotarsi, in caso di necessità o volontà di cambiamenti vitali,  di adeguate tronchesi per tagliare la cima che lo trascina al seguito del potente rimorchiatore.

Imprudenza, che solo alcuni ritengono tale,  viene resa ancor più grave se si nota che i rimorchiatori invece, tutti i rimorchiatori, posseggono una cesoia potentissima in grado di tagliare, senza esitazioni, la fune che traina l’imbarcazione nel caso si rendesse ciò necessario per casi che solo il comandante del rimorchiatore può valutare.

In questi casi coloro che avevano affidato la loro barca alle forze e alle volontà del rimorchiatore, si trovano improvvisamente, ma prevedibilmente, in balia delle onde senza sapere dove si trovano, né quanto dista il primo porto per un ricovero necessario.

E’ come se Ulisse per il suo viaggio, scorrazzando nei mari del mondo,  avesse deciso di far trainare la sua barca da un’altra triremi, magari con equipaggio e comandante originari di Troia. Converrete che non sarebbe stata una mossa geniale anche se apparentemente potrebbe sembrare una scelta dettata da adeguata prudenza. Raccontata così sembra assurdo, ma molti fanno proprio così, con buona pace di Ulisse e del “seguir virtute e conoscenza”.

Altri ancora, ma sono veramente pochi, decidono di andare per mare surfando, appoggiati provvisoriamente ad una tavola per tentare di cavalcar le onde. In questo caso ci troviamo direi proprio in un altro mondo, rispetto ai casi precedenti.

I pochi che si avventurano in tale modo, scriteriato per i più, di percorrere vie, infatti non solo non dispongono di indicazioni, né di accessori che garantiscano di rimanere sulla tavola sino alla riva, ma essi stessi cercano il caso e l’imponderabile e su questi basano il loro più genuino piacere. La prossima onda per surfare non sanno quando comparirà, l’aspettano solamente. Non sanno quanto alta sarà né quando la sua cresta si ripiegherà su se stessa, chiudendo l’ imprudente surfista dentro una gabbia di acqua che lo centrifugherà nelle profondità.

Cavalcare un’onda dura una ventina di secondi più o meno: quindi tanti rischi, tante incertezze, un abbandono al caso per qualcosa che è così momentaneo, caduco, che termina così velocemente, così effimero, ma anche così leggero e così veloce che sembra di volare.

Così, di onda in onda, cercando quella che permetta di proseguire la cavalcata per altri 5 secondi e poi un’altra  per tentare ancora: stavolta però la forza è immane e per un attimo si rimane sospesi in aria per poi cadere giù nell’abisso d’acqua dove ogni riferimento spaziale e temporale viene eliminato e bisogna solo affidarsi alla fisica dei corpi galleggianti e alla benevolenza dell’onda stessa che decida ad un certo momento di sputar l’intruso di nuovo in superficie.

E poi ricominciare.

Perché farlo? Perchè scegliere questo modo assurdo di andare? Perché tante e continue cadute e poi di nuovo su per poi cadere  ancora seguendo il volere dispettoso del caso e dell’imponderabile?

Non so dirvelo, ma c’è qualcosa di affascinante in questa  visione del modo di andare  e di attraversare la vita che a me sembra molto reale e vero.

Mi dicono, i surfisti, che è  controintuitivo  andare per onde con la tavola da surf: per questo è necessario tanto allenamento e soprattutto iniziare quando si è molto giovani: i circuiti cerebrali devono plasmarsi su modalità che dobbiamo recuperare dal nostro cervello ancestrale.

Altro fatto che ritengo interessante e per questo lo riporto qui a titolo di esempio di un certo modo di andare per le strade che ci siamo scelte, mi dicono, quelli che fanno surf, che è necessario entrare nell’ordine di idea che bisogna cadere, spesso e anche volentieri: e non è una frase fatta. Questo perché chi non cade vive nel terrore di cadere ed è assai facile che nella traversata faccia di tutto per resistere in piedi, proibendo alle gambe il minimo cedimento.

E’ questa resistenza, questa strenua volontà di appigliarsi a qualcosa che è per sua natura instabile ed in continua e casuale trasformazione e quindi non permette che ci si aggrappi: si possono solo poggiare con dolcezza i piedi sulla tavola ed andare sapendo che per certo si cadrà.

Cadere è parte della traversata e può essere piacevole, non sempre, ma a volte si: estremamente piacevole sentirsi effimeri e leggeri.

Non si tratta, mi dicono, di avere coraggio nell’affrontare onde che a volte sono immense e rabbiose, ma è questione di attuare una specie di “sorveglianza attiva” che significa non mettersi in testa di avere l’onda che piace, ma solo aspettare in maniera attenta per cavalcare l’onda propizia che il caso consegnerà prima o poi e a quel punto tentare di salirci su senza garanzie di quel che succederà; anzi sapendolo esattamente: poco dopo l’onda disarcionerà il surfista, inevitabilmente ed inesorabilmente.

Rimane a questo punto sospesa una domanda legittima: perché mai dovrebbe interessare saperne sui modi del surfista quando per carattere, educazione e cultura si è deciso di andare con modalità diverse? Chi l’ha detto che fare surf sia meglio che farsi beatamente trascinare da un rimorchiatore in tutta sicurezza e con poco sforzo?

Ecco qui, non casualmente, mi fermo.

Perché proprio in questo, credo,  risiede il senso più profondo e ultimo delle parole caos,  crisi, fallimento, caduta: un passaggio necessario, a volte non completamente piacevole, dopo il quale molte certezze e molte sicurezze saranno convertite in altro ed una nuova consapevolezza inquadrerà il modo in cui noi vediamo il mondo e le circostanze che ci capitano.

Guardare ad altri modi e mondi non necessita di aderirvi nella quotidianità (non voglio essere un surfista per esempio), ma permette di vedere se stessi ed il modo in cui viviamo da altri punti di vista: ci apre possibilità di interpretazione delle cose che ci capitano e forse un giorno nuovi modi di agire che possano ridurre angosce e il sentimento di ingiustizia e rabbia che ci pervade in ogni momento.

Uno spaesamento necessario per riconciliare noi stessi con la natura e con gli altri.

E’ venuta l’ora, penso, di cominciare a dire “no” ad alcuni modi rigidi ed infelici di andare per il mondo, attaccati come ventose e con la mano chiusa a stringere non si sa cosa di così importante. Questi “no” sono negazioni di un mondo che non ci sta bene ed allo stesso tempo rappresentano una apertura ed una invocazione alle possibilità di molti futuri  “si”.

Per legge della fisica vuoto e pieno, materia e antimateria vivono assieme sempre ed inseparabilmente: seguendo tale legge l’onda prima ci porta su e poi ci tira giù: in questo non c’è male, né destino avverso, ma solo un principio che avremmo dovuto comprendere ormai da tanto tempo visto che è nato con l’universo di cui facciamo parte.

Ma forse sarà meglio che le prossime volte io mi limiti a  parlare di investimenti in borsa o dell’ultima dieta vegano-omeopatica o di quanto fa bene il cibo biologico!

E allora saranno felici di aver sentito parlare un uomo così interessante e ragionevole.

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Voce nella notte


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Ehi, tesoro, vieni, ascolta questa canzone: è “Voce ‘e notte”.

L’hai mai sentita? E’ una melodia che riconoscerei tra milioni: fa parte del repertorio della canzone popolare napoletana: quando ero  bambino mi capitava di ascoltarle; sai, canzoni come “O sole mio”: mio nonno Vincenzo era un appassionato di questo genere di musica.

Mi accoccolavo accanto a lui e vedevo il volto di Vincenzo estasiato: sedeva nel giardino della nostra casa di Nicolosi, sotto i noci centenari,  quando al tramonto l’aria delle sere d’estate si faceva fresca e profumata, e ascoltava con gli occhi chiusi un 33 giri che andava sulle note di ‘O surdato ‘nnammurato e di Malafemmina: canzoni d’amore, spesso di un amore struggente per una donna.

Nonno Vincenzo, che uomo! Certo non lo ricordo come un uomo sentimentale e romantico, almeno per quello che lui rivelava in famiglia o a noi nipoti. Lavorando sin dall’età di 7 anni era diventato  imprenditore di un certo successo: molto concreto senza fronzoli, dedicato notte giorno alla sua impresa e ai suoi operai.

Questo è quel che ricordo di lui e quello che sempre hanno raccontato di lui le persone che hanno vissuto vicino a questo signore d’altri tempi.

Perché ascoltava con l’animo rapito quelle canzoni d’amore napoletane?  Forse quelle canzoni gli ricordavano tempi passati, quando, bel giovanotto senza una lira in tasca, amoreggiava con qualche ragazza che non avrebbe mai più rivisto?

Oppure…?

La scorsa estate, a Cortona, nel corso di un incontro con uno scrittore napoletano, ho sentito raccontare la storia della più bella canzone napoletana: era proprio “voce ‘e notte”. Il testo è bellissimo e diventa commuovente e meraviglioso quando se ne conosce la storia che c’è dietro questo testo: una storia vera che vorrei raccontarti.

Dai, posa il libro e siedi qui, accanto a me.

Devi sapere, innanzitutto, che la canzone napoletana classica è sempre dedicata ad una persona, una donna in genere. Anche  “voce ‘e notte” quindi, ma questa canzone è  speciale: è anche una serenata, una serenata particolare, però.

Infatti la serenata normalmente contiene nel suo testo sempre il nome della persona a cui viene dedicata: era infatti portata – si, devi sapere che la serenata “si porta” non “si fa”- dicevo, era portata generalmente di notte, per strada, sotto i balconi di palazzotti con più condomini e doveva essere chiaro a chi era destinata.

La serenata di “voce ‘e notte” è una serenata, ma senza nome.

Cosa vuol dire?

La risposta è nella storia vera che coinvolge l’autore del testo, il poeta Eduardo Nicolardi.

Correva l’anno 1903 ed Eduardo Nicolardi, giovane poeta di 25 anni, si innamora di Anna Rossi l’esile e bellissima vicina di casa, figlia di un facoltoso commerciante di cavalli. Quando Eduardo dichiara il suo amore ai genitori di Anna, questi lo cacciano via. La loro giovane figlia non poteva andare ad un poeta dal futuro incerto, ma a Pompeo Corbera, un ricco cliente del padre dalla veneranda eta’ di 75 anni. Anna cerca di ribellarsi, perché anche lei si era invaghita del poeta, ma a quei tempi era difficile contrastare il volere di un padre. Anna quindi sposa il vecchio Corbera.

Eduardo non si rassegna all’idea e spesso la notte, con la speranza che solo un disperato amore può dare, va sotto i balconi dei “novelli sposi”: vuole almeno vederla.

Una notte d’inverno sopraffatto dalla tristezza  e dal desiderio della sua Anna, si rifugia in un caffè e scrive di getto il testo della canzone “Voce ‘e notte”, che è una serenata senza nome perché lui non può rendere pubblico il nome della sua amata: lei era sposata con un altro.

Una canzone autobiografica quindi, poi musicata dal maestro Ernesto De Curtis e uscita nel 1904: riscontrò un successo di pubblico favoloso.

Ma Anna in realtà non è andata via, è come se solo fosse dovuta partire. C’è una grande differenza infatti fra andar via ed invece dover partire, allontanarsi temporaneamente, sapendo che esiste un luogo dove sicuramente si vuole a tutti i costi tornare.

Il destino farà tornare da lui Anna perché il marito, qualche anno dopo, morirà ed Eduardo ed Anna avranno un matrimonio lungo e felice con la bellezza di 8 figli.

Questa è la storia vera che ha dato spunto alla canzone “Voce ‘e notte”: una serenata senza nome fatta ad una donna che lui credeva di aver perduto per sempre, ma che invece non era mai andata via.

Mio nonno ne sono sicuro era affascinato dalle parole di questa canzone e chissà a cosa pensava, quando le ascoltava all’ombra dei noci, con gli occhi chiusi ed un leggero sorriso sul suo viso onesto.

Ora sto sentendo quella musica: mi arrivano intriganti profumi di gelsomino di quando ero bambino, il profumo della salsa di pomodoro che le sante mani di mia nonna Eleonora preparava la mattina presto; percepisco l’amore di nonno Vincenzo come se mi fosse ancora accanto: i sogni, oggi, ritornano prepotenti assieme alle note di quella canzone: le persone a cui ho voluto veramente bene non vanno mai via.

Questa è la storia di Voce ‘e notte e di nonno Vincenzo.

Dai, adesso andiamo in cucina, ho voglia di una spaghettatina di mezzanotte. Ricorda: quando l’inverno si dovesse intrufolare nella tua anima anche se fuori è piena estate, non rimanere a letto rigirandoti in ossessivi pensieri, ma corri in cucina e butta alcuni spicchi d’aglio nella padella e falli sfrigolare al calore di un buon olio assieme ad alcuni filetti di acciuga dissalata, rompendoci dentro con le mani un bel pomodoro maturo. Pasta di grano vero fatta con lievito madre, mi raccomando.

E se ti va, fai una telefonata a persona a te cara, dicendogli: vieni da me, si lo so che è mezzanotte, ma qui c’è uno spaghetto notturno che non vede l’ora di meravigliarti felice.

Cucina, canzoni, libri sono poetiche rappresentazioni dell’animo umano e sono lì che ci aspettano, capaci di eliminare qualsiasi “mal di vivere”, ogni tristezza e melanconia inutile, ma soprattutto ci danno la potente necessità di nutrire il mondo.

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Andare a lezione con Eros


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E’ ormai una pratica comune nei college e università americane: ai professori si chiede di immaginare la propria scomparsa e di ripensare alle cose che si ritengono più importanti: devono quindi preparare una lezione che viene chiamata “the last lecture”. Così mentre parlano, la platea, fatta soprattutto da giovani, non può fare a meno di domandarsi: quale saggezza vorremmo tramandare noi se sapessimo che è la nostra ultima opportunità? Se dovessimo scomparire domani, cosa vorremmo lasciare dietro di noi?

Premesso che per adesso io non ho nessuna intenzione di scomparire, anche se a decidere in merito è Qualcun’ altro, e non meno importante: in realtà io non sono mai stato un insegnate, anche se ho amato insegnare e l’ho fatto nella mia professione per più di trenta anni. Quella che segue è la riflessione sul viaggio che ho fatto nel mondo dell’apprendimento e della trasmissione delle conoscenze.  Ed allora poiché non sono un professore di Harvard e non ho una platea in un aula dell’università, mi servo della mia fervida immaginazione e parlo a voi come foste una moltitudine di ragazzi venuti ad ascoltarmi per la mia “the last lecture”.

Ho incontrato, nei  corsi e nelle conferenze che ho tenuto in vari contesti, ragazzi che frequentavano master, manager che aspiravano a sviluppi di carriera, imprenditori che cercavano spunti per reiventare la propria azienda. Sono sempre stato profondamente convinto di quanto sia importante, nel trasmettere la conoscenza, la parola ed il buon uso che se ne fa di questa.

Soprattutto perché in un mondo dominato dall’economicismo e dal principio di prestazione si è perso proprio il valore della parola. Quale?: il valore che stabilisce la relazione tra il dire e le sue conseguenze. Le parole che diventano solo parole, sono parole che hanno perso il nesso etico che le vincola alle loro conseguenze: tutti noi ormai siamo, chi più chi meno, affetti da questa patologia, che ha effetti devastanti come e peggio di una pandemia virale.

La parola non è mai solo parola, perchè trasforma, plasma, genera: si può costruire o distruggere il mondo, nascere, morire, amare, soffrire, aiutare, chiedere, ordinare, supplicare, consolare, ridere, vendicare, accarezzare: la parola ha conseguenze!

Nel processo di apprendimento la parola non è solo il mezzo per trasferire le informazioni, ma produce trasformazioni, apre nuovi mondi, muove verso paesaggi inaspettati, produce dubbi e sconvolge certezze.

Ma questo avviene solo se chi insegna ha la capacità di legare le parole alle esperienze reali di vita, se sa rendere erotico il sapere, nel senso di desiderabile e non solo utile o piacevole.

Quello che vedo spesso nelle aule, nelle azienda, nelle scuole è l’uso di un linguaggio senza anima, teso a trasferire competenze e nozioni: un linguaggio che ripete se stesso, che non muove, che non apre mondi, che non crea vuoti e fratture dove nuove idee possano nascere.

Tutto si appiattisce verso una tendenza alla normalizzazione ed all’ uniformità che evita come la peste l’altro diverso, la differenza di ruoli: tutti apparentemente d’accordo, tutti normalizzati, tutti nella media, tutto uguale: il linguaggio, i modelli di comportamento basati sul consumo veloce, sull’utilità immediata e sui risultati quantificabili. Una vita-azienda insomma.

Il disagio che vediamo nei nostri figli non deriva più come nel passato da un antagonismo tra generazioni diverse, ma proprio dalla perdita della differenza tra giovani e adulti, tra padri e figli, tra insegnati e alunni.

Sembra di vivere dentro una brodaglia indistinta: dove i genitori si alleano con i figli per contestare il professore di turno troppo severo, il padre diventa amico del figlio, il manager fa il paternalista con i dipendenti, e l’insegnate fa lo psicologo per i suoi alunni con le crisi d’adolescenza.

E così scompare la differenziazione simbolica dei ruoli, lasciando i nostri ragazzi in un limbo dove i punti di riferimento diventano per forza di cosa lo stordimento alla playstation, l’iphone e WhatsApp, la droga, l’alcool.

Come essere padri che siano modelli di vita, insegnanti che sappiano innescare il desiderio di sapere e non solo proporre stantie nozioni da mettere nel cervello degli alunni trattati come silos di granaglie?

Abbiamo la capacità di saper trasformare gli oggetti del sapere, della conoscenza in oggetti del desiderio, in eros, in qualcosa veramente di desiderabile, spostando, attirando verso, mettendo in movimento i nostri figli?

Insegnare ed educare hanno molto a che veder con amare.

Infatti amore è sempre trasformazione: ma sappiamo essere amanti, cioè soggetti che sanno agire amando, oppure sappiamo o vogliamo solo essere oggetti da amare?

Quando l’apprendimento, come in amore, non produce movimento, non apre spazi di critica, non crea trasformazioni, tutto si spegne, si esaurisce per mancanza di linfa vitale.

Sappiamo come trasformare nostro figlio, la persona amata, ma anche il paziente (se siamo medici) da oggetto della cura a soggetto della cura: cioè mettendo in grado l’altro di muovere verso il suo personale desiderio e non verso i nostri?

Abbiamo la forza morale di insegnare ai nostri ragazzi che il desiderio, quello vero che non è semplice capriccio, si alimenta dell’assenza, della mancanza temporanea, del vuoto creato per fare spazio e non può avere soddisfazione immediata, ma ha bisogno di tempi lunghi, di maturazione?

Noi genitori, arrivato il giusto tempo dovremmo toglierci di torno dalle vite dei nostri figli: solo così, creando questo vuoto e questa mancanza, loro potranno trovare la loro via, senza dover scimmiottare quella proposta da altri, solo così impareranno a desiderare i propri sogni e non quelli imposti da stupidi profeti: uno spazio dove siano liberi da sudditanza economica, psicologica e inibizione ad intraprendere strade nuove.

C’è puzza di stantio, di morto nella nostra continua preoccupazione, attenzione asfissiante, nel perpetuare giudizi, valutazioni, con cui affoghiamo i figli: questo spazio è pieno di oggetti morti, elementi inerti, ideali inesistenti se non quello del consumo compulsivo e di un individualismo che fa paura: così eliminiamo la possibilità dell’invenzione, del sogno, dell’esplorazione.

L’allievo a scuola o all’università, il figlio che fa i primi passi lontano dalla famiglia, il giovane che inizia a inserirsi nel mondo del lavoro sono tutti trattati come una macchina che deve esprimere prestazioni adeguate: l’apprendimento che in queste fasi rappresenta l’aspetto più importante, allora diventa il riempire il cervello di file con lo scopo di travasare informazioni nella loro memoria.

Ma questo non è apprendimento: questo può solo esserci dove qualcuno sa, con le parole, aprire nuovi mondi, esattamente come accade nell’incontro amoroso.

Le parole di un vero maestro non sono informazioni, ma sono corpo, carne, vita, desiderio, incontro erotico con il sapere: uno spazio per la sorpresa, l’emozione, la bellezza.

In quello spazio il maestro, il padre, il professore che amano sanno accompagnare i ragazzi……….e fermarsi, poi, lasciandoli andare. Sanno insegnare veramente perché guardano alle vite storte di ognuno dei nostri figli senza l’intenzione di raddrizzarle, ma dandogli valore per quello che sono: ho visto vigneti in cui alcune viti stortissime davano uva dolcissima.

Una buona definizione dell’atto di educare: amare la stortura della vite.

Dico a mio figlio: reinventa quello che hai ricevuto da chi ti ha preceduto, reinventalo in modo singolare, definendo un tuo stile, realizzando la tua vocazione, i tuoi più intimi desideri e rendi la tua vita una vite storta, piena di progetti e con qualche illusione. Credi nella magia che cose incredibili possano ancora accadere. Fottitene del giudizio degli altri, delle forme stantie da  ragazzo perfetto, dell’imperativo alla produttività, della efficienza esasperata, delle consuetudini della società perbene: ti auguro invece una vita storta che si perde, si smarrisce, si disorienta e poi nel viaggio ritrova una direzione ed un senso: il tuo senso.

Sono su un aereo che mi porta da Roma a Bucarest e sto per percorrere un altro anno della mia vita: mi viene in mente ciò che veramente amo fare: insegnare;  e  vedo i visi delle persone che ho amato: solo questo. Ci sono frammenti, qualche rovina, storie, giardini,  orli di abissi, albe e tramonti, occhi che luccicano, odori inebrianti di terra bagnata  dalla pioggia di primavera, inciampi, assenze, intuizioni, dubbi, stupore.

Si sa la vita non è in ordine alfabetico: non esclude il disordine, il caos, l’imprevisto e la turbolenza di incontri inaspettati.

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“Tutto ha avuto inizio da una interruzione” (Paul Valery)


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Se volete proprio saperlo “tutto ha avuto inizio da una interruzione” come quel genio di Paul Valery diceva.

Una mattina mi sono svegliato e ho deciso di cambiare alcune cose.

Il passo era diventato pesante e quindi, in questi casi, il passo lo si cambia: è necessario uno scarto di lato e si inizia di nuovo.

Ecco, la questione però è se davvero esistono interruzioni nella nostra vita, oppure sono solo pretesti che adottiamo per affogare la noia e per dare un certo ritmo ed intensità a ciò che ci circonda.

Abbiamo tutto e crediamo di non avere niente. Corriamo, ci affanniamo per arrivare in vetta, e quando arriviamo ci viene il mal di montagna, ci viene da vomitare e ci chiediamo cosa siamo saliti a fare sin la su.

Forse il fatto è che ci vediamo come personaggi che cambiano ruoli asseconda dei momenti, delle occasioni o delle persone che ci stanno di fronte. Pensiamo di essere ogni volta un personaggio diverso impegnato chissà in quale avventura, ma quel che dovremmo capire è che noi non siamo solo quei personaggi: siamo invece tutta la storia.

E la trama di questa unica storia sono le nostre utopie, le illusioni e i sogni.

Io i sogni e le mie utopie da realizzare ce l’ho chiari solo adesso, anche se sono certo che  erano gli stessi che frullavano nella mia testa sin da quando incontrai all’età di sei anni una bellissima bambina con riccioli dorati, lei ne aveva 5 di anni, durante una crociera con i miei genitori. L’avrei rincontrata 21 anni dopo: i sogni che si sognano da piccoli, ci vengono incontro di nuovo quando siamo adulti e, se abbiamo coraggio, avremo la possibilità di realizzarli.

Detto questo, vediamo se riesco a mettere nero su bianco alcuni di questi desideri o utopie come mi piace chiamarle, però non le spiattellerò tutte: ce ne sono di molto personali e quelle le tengo per me, o solo per alcuni.

Prima utopia: non mi basta vivere una sola vita, cioè quella che mi hanno gentilmente regalato i miei genitori.

Ed allora, nella mia follia, se prendo un libro e lo comincio a leggere, inizio anche un’altra vita perché percepisco il mondo con gli occhi di chi ha scritto il libro e dei suoi personaggi.

Se scrivo, tento di accedere a quel fondo enigmatico e buio che è l’altra parte di me stesso, ossia la follia che abita in ognuno di noi: la vita che conduciamo ogni giorno, quella normale dico, ce la nasconde inesorabilmente e pervicacemente.. Questa parte è resa muta dal nostro convenzionalismo, dalle abitudini e dalla paura di essere diversi, ma è quella dove abitano eros, libertà, incoerenza e illusioni che rendono la nostra vita per la maggior parte delle volte incomprensibile agli altri: salvandoci però.

Ci sono cose che non riusciamo a dire e che non si possono dire durante il giorno, quando siamo perfettamente calati nel nostro personaggio di facciata buona per la società.

Noi cerchiamo di vivere dignitosamente, senza creare scandalo, evitando le guerre con gli altri perché noi siamo gente onesta e buona. No?

Ma così facendo, negandoci la libertà di dire, esprimere, desiderare ed essere sostanzialmente folli, creiamo dentro di noi un mare di ghiaccio.

Certe volte i libri, lo scrivere o vedere la realtà attraverso l’obiettivo di una camera fotografica mi permette di sciogliere quel mare ghiacciato dentro di me che gela il modo di esprimere il mio mondo e prende a calci le mie utopie, senza le quali uomo mi sento davvero poco.

Forse alcuni personaggi descritti in un romanzo o fotografati per la via possono diventare i nostri amici silenziosi che ci  riportano lì dove dignità, coraggio, libertà abitano. Lì dove le nostre sensazioni più intime, le nostre emozioni più splendenti vivono protette dalle martellate che arrivano da un uso del linguaggio improprio, arrogante, stupido e falsamente gentile.

Ed allora quando il mare di ghiaccio comincia a sciogliersi mi prende per esempio una voglia quasi catartica di mandargliele a dire a chi  proprio se lo merita.  A chi?

-A chi, per esempio, non avendo più il senso della realtà, abita luoghi che sono costruiti per soddisfare l’agonismo narcisistico dell’esposizione costante ed agogna così compulsivamente consenso e riconoscimenti.

-A chi dice frasi fatte e molto stupide, come per esempio: la mia libertà finisce dove inizia quella tua. Fesserie: la mia libertà inizia esattamente dove inizia la tua, altrimenti non abbiamo capito assolutamente niente di cosa significa libertà.

-A chi spende giornate intere a fare team working, brainstorming, strategic meeting e steering committees. Cavolate!! (si dice cazzate): le buone idee nascono dal singolo individuo che ha il coraggio, l’immaginazione ed il cuore per muovere in avanti rischiando sulla propria pelle e non su quella degli altri. Smettete di fare riunioni, prendete le palle, decidete e assumetevi le responsabilità in prima persona; poi raccontate la vostra idea con una storia interessante che sappia affascinare gli altri.  Ed evitate come la peste le ricerche di mercato e gli esperti di marketing e di comunicazione.

-A chi si ferma alla superficie delle cose e dei fatti ed emette sentenze nei confronti di chi è più debole di lui, dimenticando che solo per una questione di fortuna (si dice culo) lui non si trova al posto dell’altro disgraziato.

-A chi  non sa dire grazie alla persona che ha saputo disegnare un tratto del suo cammino: con generosità, convinzione e a volte inconsapevolmente. (Grazie a tutti quelli che lo hanno fatto per me).

Se c’è un motivo per cui fotografo è perché voglio allenare la mia mente e i miei occhi ad essere meno dogmatici facendoli capaci di vedere in maniera cristallina, senza paura.

Vorrei essere come Cyrano de Bergerac (…e poi ci rassomiglio anche un po’ per via del mio fantastico naso!): un po’ guascone e un po’ poeta, giusto, implacabile con me stesso e amorevole con gli altri, ma non con tutti.

Calcolare, aver paura, essere spaventato da chicchessia, preferire fare una visita invece di una poesia, redigere petizioni, rincorrere le presentazioni?

No, grazie! No, grazie! No, grazie! 

Ma… cantare, sognare, ridere, muoversi, esser solo, esser libero, aver vista cristallina e voce argentina, quando va, mettersi il cappello di traverso, per un sì, per un no, battersi – o scrivere un verso! Lavorare senza preoccuparsi di gloria e fortuna, per quel viaggio tanto pensato sulla luna!

Non scrivere mai nulla che non giunga dal profondo, e sempre modesto dirsi: in fondo, caro, sii pago dei fiori, dei frutti, financo delle foglie! se è nel tuo giardino che le si coglie! Poi, se per caso ti giungerà un po’ di trionfo, non aver nulla a Cesare da dare, meglio a te stesso ogni merito serbare. Infine, senz’essere l’edera parassita, anche quando non si sia quercia né tiglio, magari non salire tanto in alto, ma farlo da solo, senza alcun appiglio!

Tratto da Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand

E le altre utopie mi chiederete? C’è tempo per quelle , ne riparleremo, magari aspettando che mi raccontiate le vostre.

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Per difendere la bellezza delle cose fragili


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Non sono d’accordo con chi, per compiacere qualcuno o per innata incapacità a vivere a fondo la vita, esalta l’essere fragili e vulnerabili.

E questo per due ragioni essenzialmente.

Primo: la nostra cultura occidentale basata sui principi religiosi ebraici e cristiani ha sempre contrapposto l’uomo alla natura. Questa viene definita matrigna e, quindi, siamo costretti a  combatterla per sopravvivere: noi siamo come Dario il re persiano che cerca di vincere Alessandro Magno: a volte ci sembra di ottenere vittorie in qualche battaglia, ma la guerra è persa in partenza: la morte ne sarebbe la prova definitiva!

Questo modo di vedere il mondo e la vita, noi stessi e la natura in cui siamo immersi, porta a sentirci fragili e continuamente e perdutamente impegnati in una battaglia quotidiana senza speranza.

E’ il mondo come ce lo hanno dipinto, da migliaia di anni: ma è solo una visione del mondo.

I Giapponesi, i cinesi, per esempio, da che mondo è mondo, non vedono il mondo così: non si sentono vulnerabili e non hanno bisogno di esaltare e giustificare la fragilità umana, perchè non hanno la visione dicotomica uomo versus natura.

Peraltro solo noi che viviamo in questa contrapposizione la chiamiamo natura: così astratta nella nostra testa che è astratto anche il nome. Altri dicono bosco, torrente, foresta, pascolo, roccia, laguna: cose che si possono indicare con un dito, cose che si possono usare, dentro cui si può abitare. Noi abbiamo qualche idea platonica della natura, non la abitiamo veramente e fisicamente e per questo non sappiamo nemmeno nominarla: e la combattiamo!

Quella che noi occidentali abbiamo è una mappa di quelle possibili attraverso cui interpretiamo il viaggio su questa terra, ma è solo una delle mappe: altri ne hanno una diversa: quale è quella più utile?

Secondo: mi viene il sospetto, direi fondato, che questa storia dell’esaltazione della vulnerabilità e fragilità proposta spessissimo  da buona parte dei media, sia una storia raccontata ad arte.

Più ci convincono che siamo deboli, vulnerabili, indifesi, maggiori sono le possibilità che a noi  venga tolta la voglia di ribellarci a chi, in maniera subdola e per propri esclusivi interessi, ci tiene soggiogati a comportamenti che sono molto lontani dal nostro reale benessere. Penso al consumismo folle, all’individualismo imperante, al disinteresse per il rispetto del nostro pianeta e penso soprattutto alle enormi diseguaglianze tra chi detiene ricchezze e potere illimitati (pochi) e chi vive e sopravvive di sussistenze e di espedienti (molti).

Quindi dobbiamo essere o sentirci invulnerabili ed invincibili come Capitan America o Superman?

NO

Vorrei piuttosto difendere una certa bellezza che sta nelle cose e anche, a volte, nelle persone fragili.

Vi propongo qui alcuni spunti che potrebbero essere utili a questo scopo: difendere la bellezza che sta in una certa fragilità, senza per questo giustificala ad oltranza: anzi, esaltando alcune bellezze della fragilità, ci rendiamo antifragili.

Per ogni punto che mi è sembrato rilevante  allo scopo di cui sopra ho elencato alcuni elementi di riflessione ed essendo solo spunti non sono affatto organici: ognuno se vuole li può sviluppare come vuole e sistemarli secondo le priorità personali.

Ok partiamo: allora come possiamo fare a difendere la bellezza delle cose fragili?

 

1-Riconoscendola:

  • Melanconia: diversa dal mero pessimismo è invece lotta per trovare il senso e la destinazione. E’ il luogo della memoria ed il tempo di quello che è stato, che ci ha fatto vivere bene, ma che adesso non è più possibile recuperare: in questo c’è bellezza e l’essenza di riconoscersi profondamente umani.
  • Vedere il cammino, vedere la meta ed accettare smarrimento, caos, notte, crisi.
  • Cantico delle creature.
  • Il valore delle cose inutili: poesia, letteratura, filosofia, sogni.

 

2-Distinguendola:

  • …dalla debolezza che è invece corruzione della mente dovuta alla paura. Chi invece sa essere fragile in certi momenti è come il diamante:  fragile ma durissimo.

 

3-Difendendola: 

  • Come la madre che protegge il figlio nell’antica Pompei nel mentre l’eruzione seppellisce tutto sotto una valanga di fango bollente (potete vedere il calco a Pompei: impressionante !)
  • Restare e non scappare.
  • Eros per le cose fragili.
  • Unire gli impossibili e gli opposti.

 

4-Riparandola:

  • Kintsugi è l’antica arte giapponese di rendere belle le cicatrici e riparare l’incompiutezza: ogni cosa e ogni persona ha un compito assegnato (come la tazza riparata) e ha la responsabilità di portarla a termine: destino che non coincide con la necessità e fortunatamente, ci lascia spazio all’azione errante e al mistero.
  • Le parole riparatrici, le storie, la narrazione.
  • Poesia: La ginestra  di Giacomo Leopardi (leggetela).
  • Chi sono le persone che riparano il mondo? : lo è delle persone e dei mestieri pazienti (contadino, calzolaio, pescatore, meccanico e giardiniere), per loro è evidente che niente si crea dal nulla ma che le cose vanno custodite e coltivate e rimesse a nuovo.
  • Custoditeci e riparateci nonostante tutto.

 

5- Rendendola antifragile:

  • Creare legami, connessioni e percorsi ridondanti. Che fesseria l’efficientismo esasperato degli odierni modelli di business: qualcuno con milioni di anni di esperienza sul campo ci ha fatto poco efficienti e ridondanti: due orecchie, due occhi, due reni, due polmoni. Ci sarà pure una ragione!! No?
  • Contraddizioni e contrari sono importanti: la verità si produce al contatto di due proposizioni nessuna delle quali è vera: è vero il loro rapporto.

 

E alla fine:

  • Eros (come lo intendevano gli antichi greci)ed eroismo, ed amore: creare un luogo dove si possa reimparare ad amare: come bottega di amori da far crescere e coltivare, mettere alla prova e riparare quando necessario.
  • Siamo chiamati a fare qualcosa di bello costi quel che costi, compiendo così noi stessi e le cose fragili, salvandole dalla morte.
  • Abbiamo bisogno di mappe per orientarci in un mondo che noi abbiamo fatto diventare cinico e assai complesso e a volte è necessario cambiare la mappa che ci hanno detto essere l’unica e la più attendibile.

Allora:armonia relazionale: proporzione, buona educazione, equità, cura, sorriso, organizzazione e bellezza, meraviglia e arte.

Buon Natale e un grande abbraccio a tutti voi.

 

P.S: alcuni testi di riferimento sui punti che sono stati accennati qui:

– Nicholas Thaleb: Antifragile

-Vito Mancuso: Il coraggio di Essere Liberi

-Alessandro D’Avenia: L’arte di essere fragili

 

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Sono solo un essere umano


Dopo tutto sono solo un essere umano.

Ma io sono opera diversa: non darmi colpa di questo.

Anche se a volte per conoscerti meglio ti abbraccio e metto la mia mano sulla tua pancia. Anche se a volte lacrime scendono non dai miei occhi, ma dalle mie labbra: sono tutte le parole che non ti dico perchè il mio mondo funziona anche senza parole mentre il tuo non ne può fare a meno.

Se a volte ripeto ossessivamente una frase che a te sembra di nessun senso o sciocca, ascoltami comunque perché lì dentro c’è un mondo coloratissimo che so dipingere solo dentro la mia testa e che faccio uscire dalla mia bocca nascosto perchè tu possa smettere di capire e così inizi a sentire, sentire me.

Se vedi la mia mano che trema, non preoccuparti: sono le tue paure che inconsapevolmente mi fai inghiottire come pillole che dovrebbero guarirmi e che invece servono a te per condividere con me un peso che non riesci a portare da solo.  Lo so, sei solo un essere umano anche tu e per questo continuerò a volerti bene, dopotutto e  nonostante tutto.

Il muro, che  pensi che io abbia perché tu lo vedi,  lo chiami autismo ed è quello che mi esclude dal mondo come lo vedi tu.

Forse sono cieco e stupido ma io questo muro non lo vedo: per piacere non darmi la colpa di questo.

Non darmi la colpa se non seguirò i passi del ragazzo normale che avresti voluto avere: non andrò all’università e sicuramente avrò la fortuna di non lavorare come fai tu. Forse non mi sposerò, ma vorrei che una ragazza si facesse toccare la sua pancia senza aver paura e avesse l’amore per  toccare la mia. Perché nessuno tocca la mia pancia quando mi vede?: gioia mi da chi si avvicina.

Non darmi la colpa se per volermi bene dovrai spendere la tua vita accanto a me tutti i santi giorni dei tuoi prossimi giorni e scoprirai l’orrore delle tue paure nei miei gesti senza senso e nel mio sguardo a volte perso verso un futuro che tu non riesci nemmeno ad immaginare: io per te sono alieno, amico da scoprire, un esempio di mondo che funziona alla rovescia. Avvicinarsi coraggio richiede ma in cambio scoprirai utili frammenti di vita.

Non darmi la colpa se quando mi chiami a volte non ti rispondo: sono a preparare delle medicine che possano lenire il tuo dolore e tramutarlo in gioia come solo un alchimista che vive sulle punte sa fare. Ci vorrà del tempo prima che possa scoprire qualcosa che ti solleverà dalla tua pena, ma nel frattempo gioca con me: il gioco serve a usare bene la nostra testa.

Faccio quel che posso per renderti la vita un po’ più leggera perché so che hai molti problemi, ma io sono solo un essere umano dopo tutto e non riuscirò a scioglierti e liberarti: non so mentire per imbrogliarti.  Posso solo raccontarti che ho preso una balena ed invece era una sardina: una finzione che non è inganno, ma invece è voglia di vedere il mondo diverso da quello che mi hanno detto sia normale.

Tutti noi ragazzi dovremmo immaginare un’opera diversa da quella che ci è stata consegnata: omologata, disillusa, sconfitta da quella che i vecchi ci propinano come “sano realismo”: per questo ancora a volte mi vedete arrabbiato e grido e do i pugni sul muro.

Io ti guarderò sempre come mio fratello, tu per piacere, se puoi, guardami come e solo come un essere umano e gioca con me questa partita improbabile: in questo modo io ti aiuto a vincere.

E poi sorridi, io sto bene.

Ciao

 

P.S. Le frasi riportate in corsivo sono state tratte dal libro: “Le parole che non riesco a dire “- Mondadori, scritto da Andrea Antonello che nel video vedete con un gran casco di riccioli. Accanto a lui Toti, anche lui Opera Diversa, assieme a Muni e Franco: genitori alieni!!

Grazie a voi per tutto quello che fate per noi che purtroppo alieni non siamo.

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Karl Marx & Jenny


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Forse sta proprio lì, in quel momentaneo ma inevitabile cedimento, il fascino di ognuno di noi. 

Se volete davvero sentirne parlare, sono sicuro che la prima cosa che vorreste sapere è a  quale inevitabile cedimento mi riferisco: come è possibile essere affascinanti cedendo e cosa significa cedere e perchè mai dovremmo cedere così poi qualcuno ne approfitta e poi facciamo anche la figura dei deboli e questo non va affatto bene nella nostra ipercompetitiva società e altre cose del genere.

Ma onestamente a me non va di entrare in questi dettagli: primo perché sarebbe noioso e poi perché ci vorrebbe troppo tempo.

Vi racconterò giusto una storia che pochi conoscono. E’ una storia che parla di cedimenti, di fascino e della bellezza di alcuni luoghi dell’anima dove si rivelano onestà e limpidezza: in maniera sicuramente  inaspettata per il personaggio di cui andremo a scoprire gli strappi alla sua immagine storica di razionalista puro.

Quell’ onestà e limpidezza che a volte anche io ho incontrato:  in chi accoglie il proprio destino e lo fa diventare il suo talento, ma anche in chi inciampa, ride di se stesso e non diventa mai un uomo di talento.

In chi si rende fragile e per questo diventa bella come cristallo, ma anche in chi la limpidezza l’ha persa per i sensi di colpa che le oscurano l’anima e così ha reso la superficie di cristallo non più liscia, ma piena di incisioni e tagli a cui si attaccano pezzi di meravigliosa e folle umanità.

In chi mostra la propria follia essendo cosciente che l’universo è folle esso stesso e senza senso.

In chi mostra le proprie crepe come terra appena arata e ne condivide il profumo inebriante.

In chi lo sguardo rende liquido di lacrime improbabili.

In chi accetta spiragli di colori che rendono i contorni della propria vita frantumati da una geometria scomposta e non lineare.

In chi sa dire la verità, non simula e per questo è disposta a perdere tutto. E perde tutto.

In chi ha il coraggio di guardare negli occhi e dire: scusa ho sbagliato e così comprende, istantaneamente, cosa significa voler bene.

In chi smette di dire: non voglio più soffrire e inizia invece a cercare libertà e bellezza, ma anche in chi non ha questa forza e chiede aiuto.

Cedimenti che non sono collassi, nè sconquassi ma solo aurore di luce durante le quali lo spazio intorno a te, inevitabilmente e perentoriamente, si curva come per effetto della gravità cosmica di Einstein e, rendendosi concavo, crea luoghi dove anche altri vengono a dimorare per un po’: così finisce la solitudine.

Karl Marx, si proprio lui quello de Il Capitale, deve aver pensato questo se la notte del 21 giugno 1856 scrive una lettera alla moglie Jenny in cui è evidente il suo cedimento e quindi il suo fascino di uomo e non solo di politico, filosofo ed economista.

Avreste mai pensato che Marx fosse uno che di mattina scriveva:

“Invece del motto conservatore: “un giusto salario giornaliero per una giusta giornata lavorativa”, dovrebbero scrivere sulle loro bandiere la parola d’ordine rivoluzionaria: “Abolizione del sistema del lavoro salariato!“

………. e la notte invece scrive questa lettera:

Mio caro tesoro,

ti scrivo di nuovo, perché sono solo e perché mi secca tenere continui dialoghi mentali con te, senza che tu ne sappia nulla o tu mi possa rispondere […] Io ti ho viva davanti a me e ti porto in palmo di mano, e ti bacio dalla testa ai piedi, e cado in ginocchio davanti a te, e sospiro: «Madame, io vi amo». E davvero io ti amo, più di quanto abbia amato il Moro di Venezia. Il mondo falso e corrotto coglie tutti i caratteri in modo falso e corrotto.  Chi dei miei numerosi calunniatori e nemici dalla lingua biforcuta mi ha mai rimproverato di essere chiamato a recitare la parte di primo amoroso in un teatro di seconda classe? Eppure è così. Se quei furfanti avessero avuto dello spirito, avrebbero dipinto da una parte «i rapporti di produzione e di commercio» e dall’altra me ai tuoi piedi.[…]  Ma furfanti stupidi sono costoro e rimarranno stupidi in saecula saeculorum. ( Incredibile quello che scrive!! Vero?)

Un’assenza momentanea fa bene, perché quando si è presenti le cose sembrano troppo eguali per distinguerle. Persino le torri da vicino hanno proporzioni nanesche, mentre le cose piccole e quotidiane, considerate da vicino, crescono troppo. Così è per le passioni. Piccole abitudini le quali con la vicinanza che esse impongono assumono forma appassionata, scompaiono non appena il loro oggetto immediato è sottratto alla vista. Grandi passioni che per la vicinanza del loro oggetto assumono la forma di piccole abitudini, crescono e raggiungono di nuovo la loro proporzione naturale per l’effetto magico della lontananza. Così è con il mio amore[…]  Basta che tu mi sia allontanata solo dal sogno e io so immediatamente che il tempo è servito al mio amore per ciò a cui servono il sole e la pioggia alle piante, per la crescita. Il mio amore, appena sei lontana, appare per quello che è, un gigante in cui si concentra tutta l’energia del mio spirito e tutto il carattere del mio cuore.

Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irrisoluti. […]

Mia cara, tu sorriderai e ti chiederai come mai tutto a un tratto divento così retorico ? Ma se potessi stringere il tuo cuore al mio cuore, tacerei e non direi parola. Poiché non posso baciare con le labbra, sono costretto a farlo con il linguaggio e le parole…

In realtà molte donne sono a questo mondo, e alcune di esse sono belle. Ma dove ritrovo un volto nel quale ogni tratto, anzi ogni piega risveglia i ricordi più grandi e più dolci della mia vita? Nel tuo viso soave io leggo persino le mie sofferenze infinite, le mie perdite irreparabili, e quando bacio il tuo dolce viso riesco ad allontanare con i baci la sofferenza. « Sepolto nelle sue braccia, risvegliato dai suoi baci » — cioè nelle tue braccia e dai tuoi baci e io regalo ai bramini e a Pitagora la loro teoria della rinascita e al cristianesimo la sua teoria della risurrezione […] Addio tesoro mio. Ti bacio migliaia di volte insieme alle bambine. 

Tuo Karl

Nella foto un uomo di spalle legato e ferito che del cedimento ne ha fatto religione di vita immortale ed eroica, strappando il mondo.

 

P.S. Grazie a Claudia De Lillo e al suo economista-marxista barese che mi hanno fatto conoscere l’altra faccia della storia che nessuno racconta mai.

 

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Fracaso


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Si, con una sola esse: fracaso, non ho sbagliato a scrivere: è una parola in spagnolo che significa “fallimento”. L’ho imparata leggendo il blog del mio amico-fratello che fa il business therapist (se siete curiosi di sapere cosa fa un business therapist andate a vedere quello che scrive: antoniofontanini.com)

L’ho scelta, fracaso, perché, come capita spesso con la lingua sorella dell’italiano, alcune parole hanno una interessante assonanza con termini e significati della nostra lingua.

E’ evidente in questo caso che fracaso in spagnolo ci porta subito alla parola fracasso in italiano.

Ed infatti ai nostri occhi il fallimento è proprio un disastro che produce un gran fracasso.

Il fracasso è una strage, una rovina, una distruzione: crea sbandamento, confusione e suscita anche scalpore e scandalo.

Bene, quindi fracaso esprime perfettamente tutto ciò che il fallimento significa per noi: qualcosa da evitare a tutti i costi, sempre, come la peste nera.

Questa strenua ossessione ad evitare anche solo di parlare di fallimento, deriva da una idea che ormai pervade il mondo: il principio base è quello della Prestazione, della Performance.

La società ci considera di valore come individui solo se eseguiamo bene e nei tempi stabiliti il lavoro e i ruoli assegnateci: manager, medici, madri, padri, mariti, mogli, regolamentando per assurdo anche il ruolo di amante, compagno, migrante, amico.

Tutti valutano tutti in termini di prestazioni dovute e per queste viene riconosciuta una ricompensa, spesso in denaro, se vengono soddisfatte le performance richieste.

Riflettendoci con attenzione, questo significa che liberi non siamo, ma dominati dallo stress di dimostrare che “performiamo prestazioni” ogni ora, ogni giorno della nostra santa vita.

E non pensiate che ciò succede solo nell’ambito del lavoro: non è così.

Ci impongono prestazioni e procedure  anche in ambiti che dovrebbero essere immersi nella più assoluta libertà di espressione derivante dalla sensibilità e dai valori del singolo individuo.

Ci hanno detto, per esempio, che per essere bravi e moderni genitori bisogna impostare il rapporto con i propri figli sul dialogo continuo.

Lo stesso se parliamo di relazione amorosa tra marito e moglie o tra compagni: guai se non c’è dialogo, empatia, comprensione.

Ma che fesseria è quella di assumere che con il dialogo si preserva l’ amore.

Ma che castronaggine è quella di dire che devo esprimere empatia nei confronti del migrante e dello straniero che viene, non invitato, a casa mia.

Ritengo che ci nascondiamo dietro le parole dialogo, empatia, comprensione solo per evitare e tenere lontani in maniera definitiva e persistente gli esseri che sono “altri” da me.

Con il dialogo e l’empatia, mi costruisco uno scudo ed un perfetto alibi che esprime la mia volontà di non accettare l’altro come differente da me.  Non voglio considerare di valore queste differenze e anche queste lontananze: sostanzialmente, l’altro. Voglio “normalizzare” e renderlo il più possibile simile a me, perché il diverso da me mi fa paura, è il buio della mia anima.

Sosterrò sempre che l’amore per la propria compagna, per un figlio e per lo straniero si basa non sul dialogo ad ogni costo, né sull’empatia.

Amore è accettare e amare l’alterità dell’altro: il suo modo diverso di intendere il mondo, di fare esperienze, di desiderare la libertà, di imparare, di comunicare e di essere folle: a suo modo appunto.

Non voglio riempire il fossato che mi separa per cultura, tradizioni, religione dal migrante che viene da lontano: vorrei solo riuscire a gettare qualche ponte rispettando le nostre reciproche diversità e su queste tentare di costruire una relazione alla pari.

Ed in tutto questo devo mettere anche in conto come naturale il fallimento, la fine di una relazione, l’impossibilità di capire fino in fondo le scelte di mio figlio e le follie della mia compagna: in poche parole il “fracaso”, la fine che si realizza nonostante o forse a causa proprio dell’empatia, del dialogo e della comprensione da crocerossine.

Pensate che ci tengono come schiavi con il principio di prestazione, con il politically correct, con l’ostinata perversione a ritenere di valore solo quello che ha uno scopo utile e con i sensi di colpa se non siamo empatici e disponibili al dialogo.

Tua moglie se ne strafrega se dialoghi ma non la ami.

Tua figlia se ne sbatte che la comprendi e parli spesso con lei, ma non rispetti il suo modo diverso di stare al mondo.

Così come il migrante non trova particolarmente d’aiuto la mia empatia, anche perché ditemi voi come faccio io, avendo vissuto, con tutte le comodità di questo mondo, una vita facile ad empatizzare e cioè avere la capacità di immedesimarmi nel dolore di una persona che ha vissuto povertà e atrocità per me nemmeno immaginabili!!

Il principio di Prestazione efficiente che pervade il nostro stare al mondo ha generato una morale che vorrebbe esorcizzare, appianare, normalizzare lo scandalo di una differenza che non può essere rimossa: quella dell’altro da me.

E’ forse allora proprio dalla esperienza di questo fallimento di non riuscire ad evitare o rimuovere queste differenze che diviene possibile un amore senza prestazioni, senza richieste perentorie, senza battaglie, senza necessità imprescindibili.

Io ti amo non perché dialogo, cara compagna caro figlio, ma perché c’è in te qualcosa che mi sfugge e scopro in te un segreto che io non posso svelare, dove nessuna empatia o dialogo possono trovare posto.

Cosa fare se volessimo provare e ridurre il principio della prestazione ad ogni costo?

Giocare seriamente.

L’onnipresente principio di prestazione non ci permette più di giocare e cioè di fare qualcosa senza che sia strettamente utile o abbia uno scopo preciso. E così ci hanno tolto l’unica possibilità che abbiamo di essere felici: giocando.

Se invece accettiamo il fallimento come parte integrante di un gioco,  allora come quando da bambini facevamo apposta deragliare il trenino dalle rotaie per poi ricominciare e vedere l’effetto che fa, così  non ci rimarrebbe che ripartire, utilizzando il fracaso come trampolino per un altro pezzo di strada e scampolo di vita concessaci.

Nella foto un ragazzo in una piazza a Barcellona che gioca a fare acrobazie con lo skate: lui ha messo in conto di cadere come parte del gioco. Mi ricordo di averlo visto felice.

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